Non è un bruttissimo film, Nomadland, ma un film di deprimente conformismo lo è senza ombra di dubbio. Conformismo ideologico prima di tutto, e ancora nel senso vetero-novecentesco: si prende una certa situazione, risultato di determinate circostanze storico-sociali (che in quanto determinate, possono sempre essere diverse da quelle che sono), e le si illustra in modo che sembrino naturali (e dunque esattamente come è giusto che siano, al riparo e al di là delle trasformazioni della Storia). Se dunque il capitale decide interamente delle nostre vite, precarizzandole completamente e sballottandole qua e là senza lasciarci la possibilità di sviluppare legami solidi, Nomadland ci dice che ci conviene farcela piacere perché tanto non possiamo farci niente. Come fa Fern, che passata la soglia dei 60 si riduce a girare gli States nel suo camper, dopo che la sua cittadina è stata svuotata dalla chiusura di una miniera intorno a cui ruotava la sua intera microeconomia, prendendo due soldi da Amazon quando c’è un po’ di lavoro, cercando tra le molte ovvie difficoltà una qualche riconciliazione con la sua nuova vita, e qualche forma di appagamento.
Siamo dunque da qualche parte fra il “che ci vuole fare signora mia?” del salumiere e i corsi di Yoga organizzati in ambiente corporate affinché chi lo popola possa continuare a ingoiare qualsiasi quantità e qualità di merda senza uscire di testa. Tra le formule consolatorie a cui si aggrappa Fern per andare avanti, colpisce soprattutto il paragone tra la propria situazione e quella dei pionieri delle origini. Questi ultimi, però, scoprivano lo spazio solo per fondare una comunità da sviluppare nel tempo; il rapporto invece tra Fern e i suoi luoghi di transito comincia e finisce all’insegna del consumo: ogni paesaggio diventa una cartolina di cui la donna fa oggetto di fugace contemplazione fine a se stessa per giusto un secondo, prima di passare a un’altra. In questo senso ha ragione da vendere Paolo Mereghetti, secondo il quale Chloé Zhao lungo tutta la sua opera “sembra chiedersi solo se inquadrare un tramonto o scegliere l’alba”. È infatti in questa nociva confusione tra alba e tramonto, tra le speranze delle origini e lo stadio terminale in cui versa l’America di oggi, che va identificato il proposito di questa operazione, il cui successo è purtroppo regolarmente e prevedibilmente commisurato alla sua furbizia.
Anche a livello stilistico, l’approccio verso il paesaggio contiene in nuce quello verso il film nel suo complesso. Come da peggiore tradizione indie, la retorica dell’informalità registica (luci naturali, margine lasciato all’improvvisazione, angolazioni semi-random) è funzionale alla trasformazione della materia di partenza in una serie di capsule informative da far inghiottire grazie a un montaggio sufficientemente tranquillo per fare da goccio d’acqua di accompagnamento. Ed è questa vocazione unicamente informativa, totalmente slegata da qualunque tentativo di far assorbire lo spettatore in un gioco mimetico prettamente cinematografico, a fare di Nomadland un prodotto intrinsecamente televisivo. Questo senza che tuttavia si abbia il coraggio di spingere questa derivazione fino in fondo, ma anzi camuffandola in cinema grazie all’intermittente inclusione, tra una capsula informativa e l’altra, dei primi piani di Francis MacDormand quale parvenza residuale di qualche perno identificativo del racconto.
Di racconto, tuttavia, non si può propriamente parlare: spazializzatosi in capsule e cartoline, il film deve tirare avanti trascinandosi tra un’episodica stazione narrativa all’altra, dall’amica morente alla gentile guida turistica con cui, forse, intessere una relazione. È dunque un’altra funzione che le ossessive e intermittenti inquadrature della star, senza cui Nomadland vedrebbe compromesso il proprio appeal commerciale, finiscono per svolgere: l’evidente, puntuale, precisa bravura di MacDormand sembra insomma essere una sorta di segnale rassicurante che chiunque, nel teatro della vita quotidiana, può avere la malleabilità sufficiente per tollerare l’intollerabile.
Altra consolazione insomma. Non è che questo il proposito di Nomadland: spacciarci a buon mercato l’idea ruffiana e consolatoria per cui nessuna degradazione, neppure quella di ciò che in varia misura sono diventate le nostre vite, è sufficientemente grande da non essere temporaneamente appagata dal placebo del consumo.
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