Secondo Clement Greenberg il collage fu la svolta che permise a Braque e Picasso di raggiungere il “puro pittorico”. L’applicazione di materiali esterni alla tela aprì la via di accesso alla “verità della pittura” tramite il definitivo abbandono dell’illusione prospettica come unica e centrale soluzione configurativa. Per la pittura abbandonare lo sforzo della prospettiva significò la consapevole acquisizione del proprio limite (la dimensione piatta come fatto fisico, la coscienza dell’esistenza di un referente bidimensionale per ogni aspetto tridimensionale) come condizione per trascenderlo (in qualità di fatto estetico). Questo movimento creativo non cadde sulla tavolozza dei cubisti sintetici all’improvviso, anzi: andando a ritroso era stato cercato da Cezanne, prima dall’Impressionismo e prima ancora, secondo Greenberg, addirittura da Manet, in risposta alla fotografia; fu infatti con l’invenzione fotografica, superiore nel disegno e nel rilevamento di una prospettiva, che la pittura, data per morta, si accorse di poter o dover creare (quasi giocoforza, per mantenersi viva) una sua verità, ribaltando la sua ricerca sul bidimensionale. C’è quindi una linea sotterranea insistente – lo “strato calcareo oltre il punto di equilibrio del fiume” direbbe Bazin – che lega il primo battito fotografico e la pittura pura ottenuta dal collage, e questa linea è la stessa a cui Jean-Luc Godard sembra fare riferimento diretto quando dice, masticando fulmini e concetti, che “l’Impressionismo fu una risposta a Niépce”.
La qualità dell’intuizione non sorprende: non è forse il collage l’orizzonte figurativo da cui Godard guarda da sempre tout les histories impastarsi assieme prima e dopo di lui? La giustapposizione di materiali diversi fuori tempo massimo gli permette di leggere anche qui una paradossale forma di inconseguenza – l’invenzione della fotografia che spalanca il puro pittorico – come una causalità sotterranea e di rigirarla in agnizione, quasi con una sovraesposizione rallentata in cui galleggiano vicini oggetti altrimenti distanti: Platone e Niépce causano Impressionismo e Cezanne. Ciò che sorprende è invece l’attenzione con cui Godard non lasci mai fuggire il tema lungo la disomogenea intervista tenuta da Lionel Baier su Instagram: sia che si parli di messa in scena, sia che si ricordino aneddoti, sia che si formulino giudizi sul presente, Godard muove tutto il discorso sulla direzione delle immagini della contemporaneità, come un ultimo collagista che sembra offrirsi nudo (“nudo come non mai” è stato detto) alle aspettative dei follower, ma allo stesso tempo riesce a ritagliarsi, inafferrabile lì nella sua immanenza digitale, forme di non detto, doppi fondi, specchi nascosti, ribaltamenti.
Apparente legittimatore di un’autopsia gratuita (letteralmente un “vedere coi propri occhi”, oltre che un “esame di un corpo morto”) egli è invece custode di un secrétaire irreversibile verso l’esterno (è rotta la legge hegeliana per cui l’interno è esplicato dall’esterno), che lascia sempre un margine di non detto, interessato a dire di come il gesto pittorico (il suo collage, il suo montaggio) influenzi il metodo e lasci la traccia nell’occhio, e di come lo stesso gesto possa segnare un discrimine tra come si comprende la contemporaneità e come invece la si frequenta abitualmente. Da questo punto di vista il primo risultante metodologico del pensiero collagistico al di fuori della parentesi modernista è l’asincronia: è l’asincronia il luogo che Godard da sempre abita nei processi creativi e la voce che parla per lui quando, per esempio, dice di scrivere talmente piccolo da non comprendere la propria scrittura e quindi di doverla riscrivere, ripensando la traccia in modo leggermente diverso (l’“io è un altro” di Rimbaud); è l’asincronia dei film fatti vedere nei teatri, l’asincronia anti ideologica (perché il sincrono è appunto ideologico nella società logo-iconica, da Barthes in poi) e non quella spersonalizzata dello scrivere a computer, o dell’essere filmati da macchine senza uomini, da robot in studi televisivi vuoti; è l’asincronia del gesto pittorico, che – anche se avviene davanti ai propri occhi e può essere scientifico (citati Valotton, Céchov) come il filmare – ha bisogno di un dubbio, di una leggera differita delle convinzioni del soggetto, essendo un fare che si fa e si disfa, un dire che dice e che disdice e non si cristallizza mai in un detto, nel detto dell’opera o nel detto del discorso.
Nella diretta Instagram si vedono proprio sul terreno della forma del discorso i risultati dello scontro tra il corpo agente di un continuo collage asincronico e gli occhi di un metodo che invece ancora impazza nella frammentarietà, nel cherry picking degli studenti di cinema citato da Baier: non ci si dovrebbe chiedere cosa ha detto JLG di nuovo ma cosa non ha detto, che margine di indefinito ha lasciato questa volta; il suo discorso è ancora la negazione del discorso – “Solo la mano che cancella può scrivere il vero”–, il rimuovere lettere dall’alfabeto per riportare equilibrio, ancora un tentativo di tenere separati significante e significato, o almeno di rimandare il più possibile il passaggio (quel passaggio che è comunicazione) del primo nel secondo, per rimettere in circolo il linguaggio e tentare l’asemia, lo stesso rumore che si sente sul ponte della nave da crociera in Film Socialisme, il brusio della lingua che “forma un’utopia, quella di una musica del senso, senso che è punto di fuga del godimento”.
Chi tenta di cristallizzare Godard in un frame da salvare non trova niente, e anzi identifica un ufo che è testimone di una teoria disabitata ruotata in pratica sulla carne, impressa nella memoria. E infatti è la memoria l’altro risultante della ricerca del gesto, dopo l’asincronia, e anche il discrimine che separa la visione frammentaria da quella collagistica. La memoria della storia (“la storia, se esiste, solo il cinema può raccontarla”), della documentalità, del ricordo degli amici e delle vecchie discussioni, la dimenticanza che tiene in sé ciò che è accaduto senza impararlo a memoria, ma lasciandosi trapassare da esso, formare da esso. Nelle parole di Godard il collage passa nell’asincronia ma è motivato da un soggetto che ricorda, e che si dimentica ciò che ha imparato e si lascia essere in differita rispetto a esso. Tutta la storia è così “dimenticata a memoria” da un corpo che sembra essere lì per essere definito e catalogato nella cronaca, ma che continua a sfuggire. A Godard non piace imparare a memoria, infatti il suo cinema ha “dimenticato a memoria” il linguaggio per poter andare sopra sotto attraverso dietro di esso. Il suo cinema ha compiuto lo stesso processo della pittura per giungere al “puro pittorico” e ricominciare a vedere: così come il collage è “dimenticanza attiva” della profondità di campo, dell’illusione della prospettiva, così anche il montaggio di Godard è oblio “aorgico” in cui riposa la storia del cinema e la storia del montaggio si fa organica, luce. Ecco allora che con le ultime parole dell’intervista Godard offre un’utopia in linea con questo orizzonte di senso, una proposta umana che è anche risposta alla modalità con cui si vive l’immagine oggi: l’utopia di una società in cui “i quadri si potrebbero spostare in continuazione” senza essere fissati nei musei. Non quindi circolazione di immagini in grado di scriversi da sole, come nella rete, non immagini che tutti imparano a memoria o che salvano per sé in forma di copia, copia di copie, ma immagini al contrario che stanno in circolo, che risorgono, si separano e si ricompattano grazie alla frattura e alla dimenticanza, al collage e all’asincronia. È lì, in quelle immagini di un tempo leggermente diverso da se stesso, viste da occhi che non sono mai gli stessi, in un flusso in cui tutto cambia per non cambiare, che si rileva la frammentazione “imprendibile nella sua immanenza”; è lì che si nasconde la prospettiva del senso, l’accordo intonato e il tornare a vedere al di là di una molteplicità ricomposta. È lì che Godard aspetta.