«Tratto da una bugia vera», si legge in apertura di The Farewell – Una bugia buona, secondo lungometraggio di Lulu Wang. La bugia in questione è non rivelare a una donna anziana, malata terminale, le sue condizioni di salute per permetterle di trascorrere serenamente gli ultimi mesi di vita. Questa menzogna a fin di bene innesca una narrazione che però prende una piega non del tutto prevista, perché l’attenzione del film si sposta dalla bugia a qualcosa di più grande.
Un indizio? C’entra la biografia della regista, nata a Pechino ma cresciuta a Miami, che plasma la protagonista Billi su se stessa, creando un alter-ego che parla e agisce al posto suo. Billi è una trentenne che vive a New York ma è nata in Cina e il suo legame con il paese d’origine è mantenuto soprattutto grazie al forte legame con la nonna, Nai Nai, a cui hanno diagnosticato un tumore in stadio avanzato. È lei la “vittima” della bugia bianca: non solo l’anziana signora pensa di essere in buona saluta, ma crede anche che i suoi parenti si siano riuniti per il matrimonio del giovane Hao Hao e non per darle l’ultimo saluto. Attorno a Nai Nai si radunano infatti i due figli, tornati l’uno dagli Stati Uniti, l’altro dal Giappone, con mogli e discendenza al seguito e tutta la famiglia si trova di nuovo insieme.
Ed ecco che il baricentro di The Farewell – Una bugia buona si sposta: di fronte alla decisione di dire o meno la verità a Nai Nai non c’è solo uno scontro tra diverse opinioni etiche, ma piuttosto il confronto fra due culture: quella americana e quella cinese, i due estremi del mondo che si guardano. Soprattutto, i personaggi fanno i conti con «la dispersione biologica della migrazione», come scrive Siri Ranva Hjelm Jacobsen nel suo romanzo d’esordio Isola. Billi, come la protagonista di Isola, porta dentro di sé una dissociazione interiore non ancora risolta, una frattura, risultato di un’identità doppia in bilico tra l’est e l’ovest. E alla domanda «è meglio l’America o la Cina?», non sa come rispondere, se non con un educato «sono diverse».
Billi (dunque Lulu Wang) appartiene, citando ancora la Jacobsen, alla «generazione né-né», che «è a casa solo per metà, padroneggia la lingua per metà»: Billi non si sente né americana né cinese ma al contempo incarna entrambe le culture, così come conosce entrambe le lingue, ma nessuna delle due le appartiene davvero (ha qualche difficoltà a esprimersi in cinese e non lo sa leggere). Il filo che lega Billi alle sue radici è proprio Nai Nai, cuore pulsante della famiglia, custode delle tradizioni del suo paese. E il farewell del titolo non è solo l’estremo saluto di chi si avvicina alla fine, ma è anche quello di chi parte per andare lontano, come i due figli di Nai Nai. Per questo l’ombra che minaccia la vita della mater familias è anche la paura dello sradicamento definitivo, del viaggio senza ritorno, della perdita di una parte della propria identità.
Il confronto tra culture, lo scollamento dalle proprie origini, il disordine emotivo di chi vive la distanza dopo la migrazione non assumono mai la forma di uno strappo, di uno scontro o di un eccesso. Anche l’ordigno innescato a inizio film – con la conseguente sensazione che la bugia salti in aria da un momento all’altro – non esplode mai. Lulu Wang, che riversa la sua storia personale nel film, sceglie la strada della delicatezza e The Farewell – Una bugia buona non strepita e non alza la voce. La regista, anche sceneggiatrice, racconta la (sua) storia con tenerezza, muovendosi però in quella zona grigia in cui la levità della narrazione cela in realtà qualche debolezza. Permane per tutto il lungometraggio quel senso di attesa, la tensione verso qualcosa che non arriva mai, come un pianto trattenuto, un nodo di emozioni che si libera solo per un brevissimo momento sul finale: Billi dichiara al mondo, con un urlo liberatorio insegnatole dalla nonna, che, forse, ha imparato a conciliare le sue due anime.