Al secondo lungometraggio, il giovane cineasta Kantemir Balagov ha già guadagnato con sorprendente lucidità un’identità autoriale solida e coerente, pur nelle sue vivide e sfaccettate variazioni sul tema.
Come in Tesnota il regista russo imposta uno schema di perdita tra due persone con un legame forte, che soffoca entrambe proporzionalmente alla consapevolezza del loro sguardo sulle miserie del mondo. Con La ragazza d’autunno però Balagov si allontana dai suoi luoghi di nascita e dai tempi della sua prima adolescenza e si sposta sessant’anni prima a Leningrado, poco dopo la fine della guerra e il famoso e tragico assedio. Il rapporto di oscura simbiosi tra due giovani donne, così diverse fisicamente ma così legate l’una all’altra da formare un unico essere dalla gigantesca incompletezza esistenziale, è al centro della storia e costruisce dietro di sé un’impalcatura di illusioni, all’alba di una Russia vincitrice della guerra ma di fatto estremamente impoverita dalla stessa. Un’Unione Sovietica già dilaniata in potenza dal tradimento stalinista annida la sua propaganda nell’ottimismo programmatico, anche se con profonde crepe di consapevolezza, di una delle due protagoniste, una donna combattente che al fronte vendeva il suo corpo per sopravvivere e il cui figlio muore soffocato dall’abbraccio mortale della sua amica, colpita da un forte attacco di crisi da stress che la immobilizza completamente. Gli scambi dagli echi quasi mortuari tra le due donne dipingono gli anfratti di una nazione che cova già dentro di sé le ferite di un sogno socialista ed egualitario compromesso dall’invincibile perpetuarsi dell’ingiustizia sociale, che si adatta a ogni ideologia semplicemente mimetizzandosi (estremamente esemplificativa la sequenza del pranzo in una lussuosa dacia zarista occupata dalla famiglia di una potente dirigente del Partito).
Mimetizzazione dell’iniquità dietro all’ottimismo per il futuro e mimesi tra due vite precarie di donne apparentemente diversissime, ma proprio per questo complementari, sono i cardini attorno ai quali il film fa ruotare la sua drammaturgia, grazie alla quale Balagov riesce a minare e scomporre molti dei dettami del cinema russo. Rifuggendo i toni grigiastri dei palazzi sovietici e preferendo il rosso e il verde acceso degli interni zaristi in rovina, spezzando in due la figura simbolica e centrale nella cultura ortodossa, della donna intesa come feticcio di fertilità, ritornata al centro della Russia putiniana maschilista e reazionaria, l’allievo di Aleksandr Sokurov racconta il fallimento in nuce della rivoluzione comunista del Secolo Breve e di ogni sua deformata emanazione. Come in Tesnota, l’estrema intimità è rivelatrice di una collettività che si dimena in un vicolo cieco, ponendo in controluce un senso della Storia e dei suoi ricorsi già finiti prima ancora di iniziare. Il Sol dell’Avvenire mostra già il suo fantasma sotto le sembianze pallide di una giovane e altissima ragazza bionda e della sua determinata ma disincantata compagna di sventura, e la dittatura russa contemporanea si intravede nel cinismo spietato della classe dirigente dell’impero sovietico stalinista.
Strutture macro e microcosmiche che si annidano proprio in ciò che Balagov affida all’invisibile, al non detto, alle differenze tra i corpi, ai movimenti di un soldato dal braccio mutilato che imita il volo di un uccello davanti a un bambino che lo guarda divertito e intimorito; bambino che morirà poco più avanti e che rappresenta un futuro che non arriverà mai, ingabbiato dalla costante e ineluttabile sconfitta che le idee devono subire quando sono applicate dagli egoismi dell’essere umano.
Andando al di là di ciò che semplicemente si vede, il cinema di Kantemir Balagov riesce a conferire all’immagine una purezza assoluta, mostrando quelle differenze che intercorrono tra apparenza e senso e rendendo chiaro allo spettatore che solo annullandole può essere possibile giungere al nucleo delle cose, al di là di ogni appartenenza, ricercando solo un po’ di pietà verso la vita oltre il potere.