«Con lieve cuore, con lievi mani…» rifletteva Cristina Campo dentro un prezioso saggio. Il valore poetico di un titolo è spesso la chiave per la comprensione diretta dell’opera. Quindi, per prima cosa, domandiamoci: chi sono Gli indocili? Indocile è chi, per natura o per scelta, non si presta alle imposizioni di un dominio. La questione non è solo ideologica, ma anche fisica: il corpo ribelle è quello che sfugge alle definizioni prescritte. Nel teatro, sfuggire con il corpo alla propria identità ordinaria è il primo passo verso la costruzione di un’immagine poetica. Ma l’atto di coscienza interiore è sempre succeduto ad un momento in cui ci si presta ad un’apertura totale del corpo e dello spirito, «con lieve cuore, con lievi mani». Questo cammino è il soggetto del film di Ana Shametaj.
La regista si muove nel tempio in cui prende forma questo mutamento. Siamo a Mondaino, nelle stanze del Teatro Dimora L’arboreto. Luogo in cui, nell’arco di tre mesi e mezzo, un gruppo di giovani attori può sperimentare nuove frontiere del linguaggio performativo, guidati dalla parole di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi.
«Una vita pura è interamente ritmata su questa musica leggera e veemente, tutta oblio e sollecitudine, tutta sorriso e pietà. Un tempo il luogo geometrico, collettivo di tali ritmi inafferrabili erano i riti, le liturgie». Oggi sono alcune scuole di teatro. Isolata fra i boschi, la struttura si presta a coinvolgere i suoi giovani abitanti, a partire dall’esperienza sempre più rara della vita comunitaria. Dai gesti legati alla vita casalinga, ci si sposta a quelli del teatro e della maschera. Ma affinché la trasformazione dei corpi sia totale, si lascia sciolta la briglia che guida verso l’esterno, sulle colline, fra gli arbusti e nei campi. Bellissime immagini: gli attori recitano alcuni versi immersi nella natura, entrando a farne parte col proprio mondo interiore.
La qualità stilistica del documentario risiede nella sua etica, che riesce a fondersi pienamente con quella della messa in scena. La regista è dissolta, partecipe nella dinamica performativa del teatro, e lascia che la macchina da presa coinvolga il nostro sguardo in questa mirabile catena di scambi. Gioca. La sua presenza spesso è ribadita da alcuni dialoghi ravvicinati verso l’obbiettivo, ma all’improvviso si volatilizza come per incanto, filmando da distanze inattese. La cadenza dei giorni è dettata dall’evolversi degli attori e dei paesaggi, frutto preciso del montaggio di Jacopo Quadri (qui, anche nel ruolo di produttore per Ubulibri assieme a Rai Cinema). Emerge un collage di stili che danzano senza pestarsi i piedi. Shametaj non perde la postura della struttura complessiva, nonostante si conceda diverse divagazioni oniriche.
Un making of nel film stesso, un dietro le quinte senza che lo spettacolo abbia mai inizio. Continuo rilancio da persona a personaggio, personale e collettivo, film essenziale e manifesto di una generazione indocile di fronte al compromesso. Un’opera prima che testimonia il desiderio di documentare «quell’eleganza di viva fiamma, quel dialogare serrato, rubato, rapito tra le potenze dell’anima e l’invisibile, quel cadere di pause interstellari – altra e più calzante scrittura del Dio, che apriva nel blocco cieco del mondo mille punti di fuga verso il regno della bellezza soprannaturale: che è il regno degli specchi raddrizzati e dei ceppi caduti, dove prendere e lasciare sono una sola estasi». Il teatro, l’avventura. Di nuovo, un’altra gioventù.
(Fra i ritratti che compaiono nel film, da Majakovskij ad Artaud a Pasolini e agli altri, spicca quello fiero di Cristina Campo. Utilizzare le sue parole, oltre ad essere un’agevolazione per chi scrive, è sopratutto l’invito alla lettura della sua opera audace).