Non dai potenti o dai trattati, mai.

Solo dal cuore degli umili la pace.

La voce del fiume, che scorre.

I nostri occhi ulcerati.

 

Sono rari i casi in cui il cinema riesce a fare il suo ingresso nel mondo in punta di piedi, ponendosi l’obiettivo non tanto di scuotere le coscienze quanto di mettersi da parte, nell’incoraggiare uno sguardo pacato e rispettoso su ciò che ci circonda. Il passo dell’acqua, presentato nel Concorso Italiano della 60ª edizione del Festival dei Popoli, ne è un felice esempio. L’opera del giovanissimo Antonio Di Biase, grazie al resto dei compagni della scuola di documentario Zelig, è uno degli esordi più convincenti del festival.

Seguendo la silenziosa discesa di un torrente, dallo scioglimento dei ghiacci in montagna fino al mare, facciamo conoscenza di diversi personaggi e delle loro minute esistenze, costellate di gesti essenziali quanto concreti. Si tratta prevalentemente di anziani. Un segno, forse, che prova a far emergere lo spirito di un mondo destinato a svanire senza fare rumore, nell’ordine naturale delle cose. Un pastore fa pascolare il suo gregge, una donna sola compie un pellegrinaggio in omaggio al marito morto, un pescatore ripensa al mare mentre gioca con il gatto. Le barche che prendono il largo nella notte, il sonno che coglie i marinai stanchi. La pioggia bagna le teste di tutti, tutti provano a ripararsi in qualche modo. Il senso di appartenenza che accomuna le vicende non sembra sostenuto tanto da un ordine narrativo quanto da un’impressione di fattualità. Il passo dell’acqua non è solo il passaggio del torrente, ma diventa il passo lento e inesorabile di tutto quel che c’è e che deve ancora accadere. Nulla di più. L’occasione che questo film ci propone è quella di incanalare il flusso leggero della vita in quantità minima e indispensabile. Per farlo serve la pazienza che il cammino di un’anziana richiede, un’attesa e un ascolto, l’invito a godersi ancora un paesaggio, un dialetto misterioso, un bagliore nella notte. La pellicola in 16 millimetri rende ancor più felice questo compito, ma testimonia anche un’attitudine all’osservazione e alla scelta consapevole di come dosare la realtà: cosa e quanto è necessario filmare?

I laghi che dall’alto rilucevano,

e nel lontano il bagliore di un aereo

teso al decollo forse. Ma di un altro

artificiale lago si parlava,

d’altro volo più alto

più scosceso. Lassù,

sul crinale delle difese più inutili

e vane, c’era nelle parole come il passo

leggero di una danza.

Lo sapevamo, ormai:

ciò che più conta è indifeso.

 

L’ultima parte della parabola ha un sapore diverso. Di Biase sceglie di mettere in mostra la pesca notturna con la lampara: un mestiere avvincente già immortalato a suo tempo da altri autori, ma la cose questa volta cambiano, perché i pesci non abboccano. L’attesa a cui eravamo abituati vibra di una nuova tensione. Osserviamo le barche che ondeggiano nel buio ronzante dei motori, qualche luce astratta prende il largo. Sentiamo comunicare i pescatori attraverso una voce alla radio. Per la prima volta durante il film le persone sono rinchiuse dentro gabbie di ferro, in balia di un languore oscuro. Rispetto alle figure che abbiamo visto fino ad ora, i pescatori meno anziani faticosamente sanno abbracciare l’inesorabile vuoto che ci lascia il tempo: tanto quanto è difficile abbracciare il fiume che fugge dagli argini e si perde nel mare. Il valore aggiunto si cela nella scelta del regista di non giudicare ottusamente il nuovo che avanza, ma di lasciar che le immagini e le persone si raccontino attraverso i loro silenzi.

Per un documentario di stampo naturalistico come questo vengono in mente i grandi nomi di registi italiani: Franco Piavoli, Vittorio De Seta, il primo Ermanno Olmi… Anche se qui non si tratta semplicemente di omaggiare, quanto di consolidare un metodo che oggi è facile definire giusto e amorevole nei confronti dei maestri, ma che è ancora più piacevole riscoprire nella sensibilità dei giovani cineasti a venire.

 

Noi, che ignoriamo le forme del futuro,

prendiamo nota di tutto, osserviamo pazienti

il ritorno del lupo e dell’orso,

lo snodo delle strade, affioramenti

per ora incomprensibili. Forse

costellazioni.

 

 

(Poesie tratte da Argéman di Fabio Pusterla, edizioni Marcos y Marcos)