5 Marzo 1953: Iosif Vissarionovič Stalin muore. Proprio in questa data si apre l’ultimo lavoro di Sergei Loznitsa, State Funeral, presentato fuori concorso a Venezia, un lavoro che in realtà si configura più come la testimonianza dei funerali di un dio.
Loznitsa sviscera ed esamina a fondo l’innumerevole materiale d’archivio dell’ex Unione Sovietica nei momenti della celebrazione dei funerali del suo idolo incontrastato, Stalin. Montandoli insieme in maniera perfettamente coerente ed efficace, ne ricava un film documentario lungo poco più di due ore che ripercorre i rituali della commemorazione del dittatore sovietico subito dopo la sua scomparsa. Creando un rigoroso collage dai numerosissimi filmati girati nelle ore successive alla sua morte, Loznitsa realizza una completa testimonianza delle reazioni di un intero Paese dopo la sconvolgente e improvvisa notizia.
Adottando uno sguardo esente da giudizi o sentenze, il documentario ci porta in giro per gli immensi territori dell’Unione Sovietica e si trattiene senza intromissione alcuna sui volti delle persone, sui rituali e sulle parole di quei giorni, lasciando ampi spazi di riflessione. Difatti anche qui, proprio come in Austerlitz, Loznitsa si sofferma sulla natura cultuale di tali celebrazioni. Se la visita ai campi di concentramento si configurava infatti come un rituale laico, con i suoi silenzi imposti e i suoi spazi monumentali e celebrativi, i cui significati si perdevano nell’ennesimo clic di un autoscatto, in State Funeral la celebrazione assume connotati religiosi, nella sua rigidità e commossa devozione.
Il regista ucraino è ben lungi dal trasformare questo ricchissimo materiale d’archivio in un’agiografia staliniana; piuttosto prende atto del suo ruolo di regista-archivista, e tenta di mostrare agli spettatori un rituale collettivo, mettendoli di fronte all’iter cerimoniale che si dispiega durante il film. Loznitsa indugia sui volti dei militari, dei lavoratori, dei bambini sovietici, alcuni in lacrime, altri algidamente in lutto, e resta con loro il tempo necessario per smascherare un culto ormai devitalizzato, che proiettato su uno schermo perde definitivamente di senso.
Quello del regista ucraino è un film in divenire, una successione di filmati che mano a mano si disgregano davanti ai nostri occhi, perdono di consistenza e valore. Il suono, che spesso nei suoi lavori si carica di un preciso significato, anche qui assume un ruolo essenziale. Gli audio originali, infatti, vengono mantenuti e riprodotti incessantemente, a volte arricchiti con effetti sonori per contribuire a creare l’atmosfera solenne e grandiosa tipica dei culti delle grandi personalità. Allo stesso tempo, però, nella loro ripetizione insistente e retorica, mostrano piano piano la loro natura vuota di frasi fatte, slogan ed esaltazione del semidio Stalin.
Ma la caratteristica che più sconvolge dell’ultimo lavoro di Loznitsa è quell’alternanza di materiale in bianco e nero e materiale a colore lungo tutto il film, dove l’unico colore che davvero risalta è il rosso, prepotente e violento, dei simboli sovietici. Un colore che sembra quasi trasformare i filmati d’archivio in un monito verso una società che sempre più sembra aver bisogno di padroni da idolatrare e da trasformare in divinità.