Nella Londra di inizio anni Ottanta la giovane Julie è una studentessa di cinema di famiglia benestante: vive la sua vita in un’epoca di trasformazioni, gode dei benefici di un moderno appartamento personale, riflette sulla direzione da imprimere alle proprie aspirazioni artistiche, e implicitamente al suo futuro. Non ha risposte certe, ma veste senza pregiudizio quella magnetica, amabile disponibilità al mondo che forse la regista Joanna Hogg, al suo quarto lungometraggio, ha conosciuto alla sua stessa età. The Souvenir sfugge però alle tare del racconto di formazione in odore di autobiografia: nel dispiegare una storia che l’ha riguardata, Hogg si sottrae a qualsiasi compiacimento o nostalgia, e riesce a restituire, con implacabile naturalismo, la natura prismatica dell’ambiente in cui Julie si muove, a partire dalla sua difficile relazione sentimentale con Anthony, intellettuale più grande di lei, maschera funebre, bugiardo impenitente, eroinomane.
Colpisce anzitutto il rigore pensante della forma, del resto rintracciabile anche nei precedenti film della regista inglese, Unrelated (2007), Archipelago (2010) e Exhibition (2013): non è solo l’approccio compositivo a dire di una posizione e di un punto di vista, ma soprattutto l’attenzione alle profondità, alle posizioni dei corpi negli ambienti, alle innumerevoli riflessioni che raddoppiano questi corpi o li trasfigurano in altre immagini, in ulteriori riflessi. The Souvenir è un film di infinite proiezioni, fisiche e intellettuali: la storia dell’arte e la letteratura, il super8 e l’avvento del cinema di taglio pubblicitario, la finzione, il documentario e il diario, le convenzioni delle classi privilegiate e la cronaca britannica, il design di interni e il lusso, la musica da Verdi (La forza del destino) al post-punk, fino naturalmente al desiderio, alla sessualità, alle menzogne, ai loro feticci. Tutto passa attraverso le risonanze interiori della sua protagonista, che accoglie o emana, abbraccia e restituisce, e nulla esige anche quando è chiamata a saggiare il prezzo di un’ingenuità iniziale, attraversando la vita di qualcuno che è la sua nemesi, un buco nero senza pace. La forza del film è tuttavia proprio quella di riuscire ad allineare queste proiezioni, filtrando mondo sociale e vita interiore in un unico, grande processo, che non cede alla retorica e non si nasconde per quello che in fondo è: un’emozionante storia femminile di come si formi uno sguardo.
Che questo sguardo appartenga a un’aspirante regista poi, rafforza una vicenda che tocca le grandi domande di chi si affaccia al cinema, e all’arte tutta, come campo d’azione e utopia personale: il desiderio di approcciare mondi che non sono quelli d’origine o appartenenza, la capacità di non considerarsi persone speciali, ma uguali a tutti, la necessità di mettere in connessione la propria esperienza con le altre, anche quella impenetrabile di un amore autodistruttivo. Battitore libero di pensieri controcorrente e filosofie a buon mercato, a un certo punto Anthony definisce Julie un dark horse: un’incognita, una singolarità forte della propria fragilità, qualcuno su cui non puoi scommettere con certezza. È proprio questa natura a rendere Julie – una sorprendente Honor Swinton Byrne, figlia di Tilda Swinton che qui interpreta… sua madre – una figura capace di sopravvivere, e forse realizzare le sue aspirazioni. Innamorata e determinata come la protagonista del quadro di Jean-Honorè Fragonard, 1786, che dà il titolo al film. Già in post-produzione, e pare naturale, una seconda parte che uscirà nel 2020.