La portata di Joker sconfina dal fatto, più o meno mediatico, di rappresentare il primo cinecomics in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Innanzitutto perché, a visione conclusa, la sensazione non è certamente quella di aver assistito a un film di supereroi. E soprattutto perché le perplessità sulla presenza in competizione di una pellicola il cui autore, Todd Phillips, è un ex nome tutelare del cinema demenziale (tra i suoi lavori il goliardico Old School e il celebre Una notte da leoni), per di più dedicata a un personaggio che nell’immaginario collettivo rappresenta un’irreale estremizzazione della malvagità umana, vengono immediatamente sconfessate. Il modello di riferimento dichiarato è il cinema di Martin Scorsese, e in modo particolare Taxi Driver e Re per una notte, citati, omaggiati e persino capovolti. Nella stessa maniera, quell’ideale ponte che dovrebbe unire cinema popolare e un linguaggio maturo e privo di compromessi verso i ricatti produttivi e gli interessi commerciali delle major, difficilmente ha trovato negli ultimi anni di cinema americano una collocazione migliore.
Si potrebbero sprecare elogi per la performance estrema e perversa di Joaquin Phoenix, perfetta incarnazione di un’insanità mentale che oltrepassa i limiti della comprensione psicanalitica. Si può rimanere sorpresi dalla classicità di una regia solida e senza virtuosismi, eppure perfettamente funzionale al graduale tracollo psichico di un individuo silenziosamente in battaglia contro le strutture del capitalismo. Perché Arthur Fleck, futuro Joker, è una vittima alla disperata ricerca di uno spiraglio da cui poter respirare, di una ragione per sopravvivere: un aspirante comico deriso per la sua incapacità di far ridere. E in questo senso, la frustrazione che attanaglia il protagonista è la stessa che muoveva in modo scoordinato e violento l’insofferenza di Travis Bickle o la ricerca di approvazione da parte di Rupert Pupkin.
Joker ribadisce quindi la natura perdente e frustrata del suo personaggio, ma diversamente dai modelli di riferimento, la sua iconoclastia raggiunge un traguardo e un compimento: il nemico può essere abbattuto, attraverso il crollo mentale e l’assunzione di una nuova personalità da parte del reietto. Arthur cambia faccia, impone di farsi chiamare Joker e si ripresenta al pubblico, senza mai riuscire nell’impresa di farlo ridere. Il suo non è più un tentativo di riabilitazione sociale, ma un’autentica vendetta armata, proclamata da una nuova identità: Joker non ha pietà laddove Arthur e i protagonisti di Scorsese tentennavano, riesce nell’impresa di sollevare una rivolta anarcoide e anti-elitaria (à la V for Vendetta) laddove Travis Bickle predicava confusamente nel buio.
Il disagio e la solitudine sono gli stessi dei tardi anni Settanta (anche se il film sembra essere ambientato nell’81, come testimonia il manifesto di Wolfen, intravisto in un vicolo) di un’America metropolitana in cui lo spaesamento dell’individuo è diffuso e ignorato dai ricchi miliardari improvvisati politici che si limitano a condannare la delinquenza e a predicare uno stato di sicurezza esasperante. Ma la potenza di questo Joker è connotata di un odio individualista capace di realizzarsi e di porsi addirittura in contrasto alla retorica collettiva di saghe come The Avengers. Joker uccide i propri padri e uccide il proprio immaginario. Phillips e Phoenix ripartono dalle umiliazioni della strada e registrano un sentimento confuso, disordinato e disorganizzato che è alla radice dei mostri del populismo dei giorni nostri.