“Dear Max, are you there?”: con una battuta semplicissima prendeva avvio il racconto di Letter to Max, un film del 2014 basato sulla comunicazione a distanza con l’abitante di un paese invisibile – l’Abcasia – rivolgendosi al quale il regista Eric Baudelaire impostava la peculiarità e la scelta di campo del suo cinema, fatto di ricerca e di relazione. Da una parte un territorio di indagine, uno spazio del reale dentro cui immergersi per comprendere le possibili piste della sua interpretazione, senza esiti certi o atteggiamenti programmatici. Dall’altra la modestia autoriale aperta allo scambio con tutti gli “attori” che possono attraversare anche per pochi istanti un film, per esprimere una corrispondenza che è anzitutto circolazione di immagini e visioni, prima ancora di ogni parola.
Con l’interrogazione di un’immagine – una stella, un satellite, un puntino chiaro immerso nel noise digitale di un cielo filmato di notte – comincia Un film dramatique, presentato a Locarno nella sezione Moving Ahead e frutto di quattro anni di lavoro laboratoriale che Baudelaire ha impegnato con venti alunni di una scuola media a Saint-Denis. Un processo di cui certamente il film, attraversato a montaggio dallo sguardo di Claire Atherton, testimonia gli esiti più flagranti, ma che deve aver comportato un densissimo scambio umano tra l’autore e i suoi giovani protagonisti, ora disponibili a raccontarsi tra le mura delle loro classi, ora pronti a diventare – e con quale sincerità – essi stessi filmmaker, passandosi la camera di mano in mano e spesso portandola fuori da scuola, per mostrare ciascuno le proprie case, le proprie famiglie, la propria età in trasformazione.
Un film che è dunque la somma di una molteplicità di sguardi, verso lo spettatore e verso il mondo, in cui Baudelaire riesce a venire meno a ogni possibile gerarchia intellettuale, riconoscendo agli studenti un’immediata uguaglianza speculativa e creativa, destinata a sovvertire le tecniche pedagogiche o gli atteggiamenti paternalistici, per nutrire il lavoro di una vibrante e incessante intuizione, che unisca il senso del fare cinema – “qual è il tema di questo film?”, si chiedono i ragazzi a un certo punto – al ben più urgente bisogno di comprendere la propria posizione nel mondo, in un luogo e in un tempo che parlano sempre più inesorabilmente la lingua della marginalità. Anche quando, come a Sant-Denis, la Torre Eiffel resta sempre visibile all’orizzonte.
Tra spiazzanti esempi di pensiero laterale, divertenti momenti di cinema in prima persona e improvvisi minuti Lumière a scandire il procedere del progetto, Un film dramatique invoca la possibilità insita nella condivisione e nella sua pratica perseverante, di cui le immagini sono soltanto uno strumento, ma possono anche diventare potente promessa o profezia: una forma di re-invenzione, o più puntualmente de-sincronizzazione del mondo, a partire dalla quale provare a fare spazio alla propria identità politica, preparandosi a trasformare un difficile futuro. [Marco Longo]
IL MITO DELLA CAVERNA
Spazio e tempo sono concetti relativi, se inclusi dentro l’estensione di una realtà congelata in una fotografia, o incorporata attraverso il movimento e la durata di un film. In The Tree House (Nhà cây), presentato in Cineasti del Presente, un uomo su Marte nel 2045 (ne udiamo solo la voce) tenta di creare un film ripercorrendo alcuni ricordi della vita della sua famiglia sulla Terra, ma finisce inevitabilmente per perdere ogni confine di delimitazione della memoria, tanto che quasi da subito appare chiaro che non è solo la distanza fisica e temporale a rendersi esile, anche se presente e talvolta dolorosa, ma proprio il grado di separazione tra vita e morte: si muore veramente se si è ritratti in una fotografia o se la propria storia riecheggia all’interno di un racconto filmico?
Il regista Minh Quý Trương si pone una delle questioni cardine della teoria cinematografica: l’idea che il ricordo e la sua rappresentazione immaginifica, nel mostrare e rimostrare una vita passata, compiano un atto ontologicamente osceno, che si oppone all’idea della morte come momento umano unico per eccellenza (insieme all’orgasmo). Questa oscenità in The Tree House assume un valore schiacciante, che soverchia l’essere umano e lo rende inadeguato rispetto ai ricordi che lascia lungo il suo cammino. La voce fuori campo del protagonista ci conduce in Vietnam, in angoli di foresta ai limiti della civiltà, dove alcuni membri della sua famiglia hanno vissuto per anni all’interno di grandi grotte in mezzo agli alberi: una volta trasferitisi in centri abitati, sono morti dopo pochi anni, troppo immersi in un altro mondo, al di là del vivere comune, paralizzati in un ricordo fino alla morte, ma riportati in vita, oscenamente, attraverso vecchie foto o filmati, o attraverso lo stesso film di Trương. Proprio a questo punto del racconto, acquisita una simile consapevolezza, l’immagine si divide in positivo, stando a raffigurare la vita, e in negativo, riportando alla luce la sua versione mortifera, quasi demoniaca, riprendendo volti che perdono ogni connotato riconoscibile, schiacciati dal potere di una fotografia o di un film.
La premessa narrativa del racconto che parte da un altro pianeta si pone subito come una presa di distanza, una fuga da un mondo in cui la realtà è minore della sua rappresentazione e in cui l’incompatibilità tra l’origine e il suo sviluppo crea una risacca di malinconia e dolore, dove l’essere umano è costretto e rimanere, non essendo in grado di farsene carico e diventando così vittima della memoria delle proprie esperienze. L’unica possibilità di un superamento è l’alterità assoluta, l’andare oltre l’umano, l’evolversi come specie.
The Tree House propone un’idea di cinema che di fatto comprime l’uomo in un segno, e questa compressione mistifica la distanza fisica e temporale, nebulizzandola in una fitta nebbia che si abbassa lungo il pendio di una montagna al cui centro, in un gruppo di grotte, le vite di molte persone hanno palpitato di amori, affetti, giochi, delusioni e abbandoni, sensazioni fisiche, espanse attraverso un ricordo dolce e amaro, che ritorna fisico quando si imprime su una fotografia o mentre viene proiettato in una sala buia, in cui l’inconscio dell’uomo ritorna a galla e cancella la mortalità di quei ricordi, ma rendendoli vivi si scontra con l’impossibilità dell’infinitezza della loro origine. Questo paradosso costante è la causa di una tristezza congenita, qualcosa che non ha permesso ai superstiti della vita nelle caverne di poter andare avanti, troppo in bilico su quel fragile filo che chiamiamo condizione umana. [Mario Blaconà]
LA VERITÀ STA NEL MEZZO
Ichiko fa l’infermiera a casa di un’anziana signora, è una lavoratrice stimata e professionale, quasi un modello agli occhi degli altri per eleganza e compostezza. Ma la sua vita subisce un brusco cambiamento quando viene accusata di molestie nei confronti di un minore. Il reato non è ancora accertato dalla polizia, ma l’opinione comune pesa più di ogni sentenza. Così quello che si presenta come un film poetico e delicato, scivola lentamente nella pura ossessione.
Da una parte Yokogao colpisce per la sua messa in scena gelida e realistica, ma col susseguirsi della visione ci si accorge di sprofondare in una serie di livelli stratificati, specchio dei meccanismi mentali innescati dalla protagonista per non impazzire. Dentro e fuori dalla sua psiche, il film riflette un codice intrecciato di visioni, quello mediatico dell’opinione pubblica e quello interiore ed emotivo dei personaggi. L’interesse del regista Koji Fukada risiede nel riconsiderare la fragilità di questi due fronti, e nel capire come l’uno sia in grado di modificare radicalmente l’altro. L’infamia che viene scagliata sulla protagonista infatti non solo le procurerà un crollo nervoso, ma manderà a monte la sua posizione lavorativa e il rapporto con i suoi cari, mentre la macchina del fango attorno continuerà a macinare informazioni, guidata dallo sciacallaggio dei giornalisti.
Proprio oltre questi meccanismi ostracizzanti, che rappresentano solo i frammenti di una psiche collettiva frustrata, emerge un livello mediano, il solo che potremmo identificare come davvero reale, e che è appunto il cardine fra queste due sfere: la visione dei fatti restituita agli occhi dello spettatore attraverso il mezzo cinematografico. Una luce bianca e zenitale abbaglia in ogni scena, suggerendo da una parte il candore superficiale di una comunità di benpensanti, e dall’altra, col suo perseverare, uno scenario congelato da cui è impossibile scappare. Dimensione che rispecchia una condizione comune in Giappone, dove le restrizioni date dalla società giudicante soffocano l’individuo fino a schiacciarlo. Sconfitta, la protagonista troverà rifugio nella piccola stanza del suo appartamento, usando come valvola di sfogo pratiche di ginnastica facciale, imitazioni di animali e sogni erotici a occhi aperti che diventeranno ben presto incubi, macchiati dal peso di un senso di colpa onnipresente.
Un thriller psicologico al femminile, che a tratti ricorda il Kotoko di Tsukamoto, ma che a differenza di questo non perde mai il controllo su ogni fredda e rigorosa inquadratura, fissandosi quasi spietatamente sulle miserie di una società allo sbando. [Davide Perego]
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