Non sono molti i registi che sono riusciti a raccontare le ferite dell’infanzia, addentrandosi nell’incomprensibilità delle scelte degli adulti. E ancor meno sono coloro che hanno saputo assumere completamente e senza compromessi il punto di vista dei bambini, accogliendone tanto l’innocenza quanto la crudeltà. Con il suo primo lungometraggio, Ginevra Elkann ha deciso di intraprendere questa strada e di sfidare con gradita incoscienza i possibili – e spesso inarrivabili – termini di paragone, per accompagnare tre fratelli in un amaro viaggio in Italia, alla ricerca di una figura paterna offuscata dal tempo e dall’assenza. Siamo agli albori degli anni Novanta, e Seb, Jean e Alma devono lasciare la madre francese e il suo nuovo marito per trascorrere le vacanze con il padre, uno sceneggiatore di scarso successo di cui conservano un ricordo confuso, sospeso tra ammirazione e rancore. La conoscenza del genitore si mescolerà a quella, necessaria, che i tre devono fare del mondo, aprendosi alla possibilità di sperimentare nuove forme di gioia e di dolore.
L’opera multiculturale e multilingue di Elkann – i protagonisti, francofoni, gradualmente si riappropriano anche dell’italiano paterno, e dunque delle radici rimosse – ne riflette almeno in parte il percorso professionale. Un sentiero tortuoso che le ha fatto attraversare nazioni diverse e differenti fasi della filiera cinematografica – dalla produzione alla distribuzione – per farla approdare finalmente al suo sogno di adolescente: la regia. Sin dalle prime sequenze di Magari si insinua anche la consapevolezza da parte dello spettatore di un ulteriore livello di prossimità tra la finzione e la biografia di Elkann: la presenza di tre ragazzi privilegiati e segnati dal divorzio dei genitori, la folgorazione materna per la cultura del nuovo marito, l’ambizione professionale paterna sono solo alcuni dei tasselli mutuati da una realtà nota ai più su cui gioca la drammaturgia del film. Magari riesce tuttavia a sottrarsi all’autofiction e a liberarsi dalle imbracature dell’esperienza personale, collocandosi in un territorio radicalmente diverso rispetto a tutta la produzione ispirata alle sorti degli Agnelli. Basti ricordare che negli anni Ottanta era stato Mauro Bolognini a misurarsi con l’immaginario legato alla famiglia torinese e la sua inattingibilità: lo sceneggiato tratto da Vestivamo alla marinara, a cui stava lavorando, venne bloccato dall’Avvocato in persona, che ne riacquistò i diritti dalla RAI per evitare che i dettagli narrati dalla sorella Susanna nel romanzo offuscassero il mito della sua famiglia. Grazie alle tinte tenui e desaturate del ricordo, Elkann lascia invece che i personaggi si muovano in un regime di realtà labile, come un’istantanea sbiadita degli anni Novanta nella quale irrompono, di tanto in tanto, le fantasie della piccola Alma. La coppia di sposi, l’immagine ricorrente inseguita dall’inconscio della protagonista, dà forma al sogno di una stabilità perduta e agognata, che di volta in volta si riconfigura a seconda dell’esperienza quotidiana. L’immaginazione infantile, di nuovo al potere nel cinema italiano dopo i recenti tentativi di Alice Rohrwacher di sovvertire l’imperativo del realismo, è anche per Elkann la chiave per ribadire l’irriducibilità di un film alla pura illustrazione, e del racconto cinematografico alla cronaca giornalistica. Perché più che un’epoca storica, il decennio degli anni Novanta è, per entrambe le registe, una sorta di personaggio che con le sue simbologie e il suo immaginario ha influenzato l’espressione di sé di chi è stato bambino in quel frangente. La cultura pop – in Le meraviglie era T’appartengo di Ambra, qui la televisione commerciale e il Gameboy – si è fatta proprio in quel momento più pervasiva, occupando la sfera privata e divenendo un vero e proprio sottofondo dell’esistenza. Eppure, lo sguardo gettato su questa deriva della società dei consumi è in entrambi i casi colmo di indulgenza e tenerezza. Come se la consapevolezza del presente portasse a considerare la demonizzazione semplicemente vana, in un ecosistema mediale che ha annullato i rituali dell’analogico, per imporre spunte e risposte istantanee e dettare altri, strettissimi tempi per le relazioni umane. Ed è proprio per questo che la voce di Alma risulta tanto preziosa: da narratrice inattendibile di una famiglia che (non) c’è ed aspirante moglie di un principe immaginario, è lì a reinsegnarci il valore della fantasia e la virtù dell’attesa.