“Si fondono totalmente/ con lo sfondo, camaleonti perfetti./ Così vicini che li sento respirare”, scriveva Tomas Tranströmer dei ricordi che mai ci dissequestrano perché, in fondo, l’essenza d’ogni uomo è il suo passato. Lo sa bene Pedro Almodóvar e lo imparerà anche Salvador Mallo, il protagonista di Dolor y gloria: Almodóvar che sempre più spesso, con l’andar delle stagioni, è ricorso, nelle sue sceneggiature, a flashback e trasferte temporali (La mala educación, Gli abbracci spezzati, La pelle che abito, Julieta); Mallo che, proprio in balìa delle rimembranze, recupererà se stesso, ora guidato da una memoria involontaria di stampo proustiano, sollecitata, quindi, da stimoli sensoriali (segni, con Gilles Deleuze) fortuiti, ora mosso dalla deliberata volontà di ricordare. Salvador è un annoso regista che ha conosciuto il successo ma, ormai, malato nel corpo, avvilito nell’anima, compromesso nella già straripante virtus poetica, è incappato in un posto di blocco esistenziale che non riesce a superare, finché alcuni incontri e coincidenze non dischiudono l’adito a una dimensione interiore prodiga di emozioni. E, un tuffo nel passato dopo l’altro…
A testimoniare il ristagno di Salvador in malumori morbosi sono sia l’andamento flemmatico della narrazione sia la rinuncia alle componenti umoristica e noir degli almodrammi più intricati e sovrabbondanti: il labirinto di passioni (mai) sopite in cui brancola Salvador sembra esigere l’èthos del solo mélo, per giunta sobrio e rattenuto. E anche la forma è consentanea: benché per i colori espressionistici, specie il rosso degno di Karl Schmidt-Rottluff, e per certi inconfondibili arredi scenici vi sia sempre spazio, i movimenti di macchina sfarzosi di un tempo si censurano in inquadrature statiche e asfissianti, anche per la poca profondità di campo, mentre si moltiplicano i simboli che alludono al concetto di prigionia, dalla grata che copre la sommità della grotta ove vive Salvador da piccolo, alle sbarre dei cancelli. Eppure, proprio da un ristagno simile, il protagonista, a poco a poco, riappropriandosi di ciò di cui l’oblio l’aveva impoverito, saprà riaffiorare. Non si tratta solo di ricordi felici, tutt’altro, ma di quanto, dopotutto, ci rende umani, ci fa essere noi stessi. Almodóvar incluso.
Già. Non scevro, infatti, di similudini con il Guido Anselmi felliniano e di tangenze biografiche con il Pablo del magnifico La legge del desiderio, Salvador è, innanzitutto, sangue del sangue del suo creatore che, non a caso, al soggetto di Dolor y gloria ha cominciato a pensare in un periodo di salute incerta. E se la vita del cineasta mancego è sempre stata imbevuta di settima arte, l’auto-fiction non poteva disgiungersi dall’auto-analisi autoriale. Chi nella memoria, anche nella più sofferta, ha trovato un terreno ubertoso è, in primis, Pedro, che, attraverso l’infanzia di Salvador, rivive anche l’ossessione per l’immagine in movimento del cinefilo di campagna che colleziona(va) le figurine di Robert e Liz Taylor (fratello e sorella?) e si scioglie(va) dinanzi alla teofania di Marilyn Monroe sullo schermo. Come Mallo nel monologo teatrale affidato all’interprete di una delle sue pellicole più celebri, Almodóvar, rammentando e manipolando, tra confessione e invenzione, alla ricerca del senso degli eventi e delle loro ripercussioni spirituali più che dell’esattezza empirica, impagina una crestomazia di temi e motivi intrinseci alla sua opera: la dismisura amorosa, la droga, l’assenza dei padri, la pregnanza delle madri, l’educazione cattolica, la distanza tra Spagna provinciale e metropolitana. Ma tutto ciò senza sortire l’effetto, che i suoi ultimi lungometraggi (quelli del ventunesimo secolo) spesso cagionano, di una caricatura o di uno stanco compendio del pregresso. Da un lato, infatti, la sincerità con cui l’autore esterna patemi, pentimenti, rimpianti conduce anche il pubblico a uno struggimento che regala palpiti autentici e prelude a un’esperienza, con Aristotele, catartica; dall’altro, egli affronta l’eidetica del suo cinema con la lucidità di un intelletto maturo. Quindi, ogni artifizio metalinguistico si carica di un valore ulteriore, come anche l’adunata degli attori-feticcio, compresi un mai così affascinante Antonio Banderas, Prix d’interprétation a Cannes, e una Julieta Serrano (che mitiga il piglio totemico con una dolcezza crepuscolare) di nuovo investiti, dopo Matador e Donne sull’orlo di una crisi di nervi, dei ruoli di un figlio e di sua madre. L’epilogo, a suo modo sorprendente, si riallaccia, in un rapporto di ideale continuità, con il prologo folgorante della Legge del desiderio: se vita e arte si travasano l’una nell’altra, anche discernere la realtà dalla sua rappresentazione filmica è questione di prospettiva.