All’interno di una lettiga abbandonata in un bosco, alcuni gentiluomini ripensano a un episodio accaduto durante la Rivoluzione. Un uomo squartato dalle forze opposte di quattro cavalli, di fronte agli occhi di un gruppo di fanciulle: nel loro sguardo l’orrore si tramuta in soddisfazione e nuova consapevolezza. Sono loro le donne del futuro.
In questo preambolo sta il cuore della ricerca che muove Albert Serra nel suo nuovo film Liberté, nato come elaborazione dello spettacolo teatrale preparato lo scorso anno per il Volksbuhne di Berlino: il desiderio sta negli occhi di chi guarda ed è questa tensione erotizzante che trova pieno compimento in un film, composto e vivo come raramente succede, erede della sovversiva lezione pasoliniana ma figlio dell’eleganza viscontiana, talmente assoluto da elevarsi come la visione più folgorante del Festival.
Vicino a Historia de la meva mort per tematiche e decòr, ma diretta elaborazione di La mort de Luis XIV nella scelta radicale dell’unità di tempo e di spazio, Liberté è il racconto di un’unica notte in cui i desideri proibiti di alcuni libertini trovano compimento in una ronda di situazioni che gradualmente li porta a infrangere i tabù del sesso. Dalle frustate al pissing, dalla tortura fino alla morte per mano di una giovane fanciulla, si compie uno scandaglio estetico dei desideri umani più oscuri: ma come erotizzare l’immagine in un tempo di pornografia diffusa?
Serra ritorna all’insegnamento dei grandi artisti – su tutti il seducente Fragonard – e si affida alla tensione data dalla voglia crescente che emana dai volti dei gentiluomini, colti nella premeditazione e nell’attesa, più intenti nell’atto di guardare che non di consumare le proprie fantasie. Tanto che il piacere più alto lo offre, nel finale, la prefigurazione di una situazione solo immaginata e che, nell’arco della lunga notte, non troverà compimento, perché attraverso la parola, totalizzante, si rende reale una fantasia condivisa.
Lontano da ogni intellettualizzazione mortifera del sesso, Liberté gioca con la materia (i corpi, il fango, le frasche) per dare vita a una pulsione carnale, capace di incarnarne sia l’eredità cristologica sia la concretizzazione pornografica, in un mirabile equilibrio che, in precedenza, solo Pasolini e pochi altri sono riusciti a raggiungere. L’innocenza di Luis Serrat, attore feticcio del regista catalano, ancora una volta servitore inconsapevole che si aggira tra i diversi signori e attraverso i cui occhi vediamo i dettagli stellati del compimento dei vari appuntamenti (in una scena complementare ma rovesciata nel senso rispetto a Salò – Le 120 giornate di Sodoma), aggiunge al film quel distacco ironico nei confronti della situazione, laddove il corpo ormai tumefatto di Helmut Berger ne incarna il risvolto tragico, di chi si avvicina alla morte senza più controllo di sé.
Tra questi due estremi, prende vita una grande lezione di cinema, nel suo versante più sovversivo, capace di intimorire chi avrebbe potuto inserire il film nella Competizione principale e non l’ha fatto. [Daniela Persico]
SCHIAVI DEL NOSTRO TEMPO
Dopo la contestata Palma d’oro per Io, Daniel Blake di tre anni fa, Ken Loach torna a Cannes per denunciare le aberrazioni dell’attuale mondo del lavoro e l’ambigua retorica delle start up. Sembra una contraddizione in termini, assistere alle sfortune della famiglia protagonista di Sorry We Missed You – progressivamente disgregata a causa della precarietà professionale – dalla Croisette, immersi tra le frivole note del red carpet. Eppure, è proprio il contesto improbabile a rendere ancora più stridente il contrasto tra quello che sappiamo e (in)coscientemente lasciamo correre, e la sua intollerabilità. Dal film precedente, infatti, Loach ha dimostrato di aver preso un indirizzo ben preciso e passibile di critica: mettere in scena pedissequamente la cronaca dei nostri giorni, affinché quest’ultima, sottratta al flusso indiscriminato dell’informazione, acquisisca uno spessore.
Se in Io, Daniel Blake il dito era puntato, senza sottigliezze, contro la burocrazia come sistema di mediazione volto a reprimere ogni sussulto contestatario, qui il bersaglio si sposta, così come muta il coinvolgimento a cui è chiamato lo spettatore. Nel momento in cui proliferano nuove forme di sfruttamento come quella dei rider, che sfrecciano a tutta velocità nel disperato tentativo di non perdere turni di lavoro, Loach aggiorna il racconto della catena di montaggio scegliendo come protagonista proprio un fattorino, Ricky. O, meglio, un “dipendente autonomo” di una società di Newcastle, che effettua consegne a bordo di un furgoncino preso a noleggio. È questa la truffa nemmeno tanto scoperta a cui siamo oggi assoggettati: la promessa di poter essere “padroni del nostro tempo”, svincolati da ogni forma di subordinazione, e insieme la beffa di dover sottrarre tempo a tutto ciò che forma la nostra identità. Per il protagonista di Sorry We Missed You questa forma di alienazione si traduce nell’impossibilità di seguire l’educazione dei propri figli, che sono trascurati anche dalla madre, costretta a correre da un paziente bisognoso all’altro. D’altra parte, in questo circolo vizioso di sostentamento e autoannientamento vale la regola del mors tua vita mea: gli anziani da assistere non sono che il prodotto della disattenzione di figli costretti a loro volta a turni massacranti.
Per questo in Sorry We Missed You non si fa che correre. Il protagonista subisce continui colpi bassi dalla sorte, ma non ha materialmente il tempo di opporvisi. A differenza di Daniel Blake, nella sua agenda quotidiana non c’è posto per l’indignazione, perché questo implicherebbe l’espulsione dall’ingranaggio. Così, il suo si rivela un itinerario senza meta – lo stipendio diviene vano se nel mentre la famiglia ha cessato di esistere – e da percorrere in solitaria, senza altri passeggeri al proprio fianco. Non c’è più spazio per la condivisione di Io, Daniel Blake, né per l’empatia. Ricky sfugge persino a noi, anche se in fondo gli siamo così simili. [Francesca Monti]
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