Se l’oggettificazione dei corpi è da sempre al centro del cinema di Bertrand Bonello, non stupisce che con Zombi Child, presentato oggi alla Quinzaine, il regista si confronti con l’archetipo cinematografico del corpo che si fa oggetto, attraverso i rituali voodoo haitiani. Così dopo la radicalità dei terroristi di Nocturama, gli adolescenti – ancora una volta al centro del film – sono qui corpi inquieti, prigionieri della disciplina di una scuola che fa di tutto per trasformarli in bravi cittadini, mentre nelle profondità dei loro cuori scoprono un desiderio assoluto e selvaggio, impossibile da domare, che li spingerà a domandarsi in cosa credere.
Diviso in due parti, il presente ambientato in un asettico collegio per ragazze e il passato nei lussureggianti scenari haitiani, il film accosta la vicenda della giovane Melissa con quella della storia di suo nonno, Clairvius Narcisse, creduto morto e riconvertito in schiavo in una piantagione di zucchero, ritornato alla vita solo in tarda età per riabbracciare l’amata moglie. Come sottolinea il docente di Storia in una lezione che apre la parte contemporanea del film, è interessante vedere come le due esistenze si specchiano al fine di aprire nuove riflessioni sul progresso e il mancato compimento di un vero processo rivoluzionario nella storia dell’umanità. Mentre Clairvius è l’uomo che sopravvive alla prevaricazione altrui estraniandosi dal proprio corpo (ma sapendone anche riprendere il controllo, non cadendo nella sete di carne che affligge i non morti e li porta alla violenza), le adolescenti contemporanee vogliono estraniarsi da ogni tensione assoluta, per diventare bambole dagli occhi senza sguardo, incapaci di amare e di credere.
Scolpito nella messa in scena chirurgica dell’autore, che lesina i movimenti di camera dando forza ai limiti delle inquadrature come presentificazione del fuoricampo, Zombi Child si iscrive nel filone di rielaborazione del passato colonialista francese, riconnettendo capolavori del passato come Ho camminato con uno zombie di Jacques Tourneur e atti di rivolta del presente come Low Life di Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval. Meno ambizioso rispetto ad altri progetti dell’autore, ma altrettanto lucido nel trasformare in cinema le istanze teoriche di partenza, il film incede verso un momento di catarsi finale, inquietante e suggestiva raffigurazione di una società materiale, molto lontana da ogni forma di reale rivolta. [Daniela Persico]
LA MEMORIA DEL FUTURO
Con La Cordillera de los sueños, il cineasta Patricio Guzmán porta a compimento la trilogia documentaria sul doloroso passato del popolo cileno aperta da Nostalgia della luce e proseguita con La memoria dell’acqua. La terra, l’acqua, le distanze siderali e ora la catena montuosa delle Ande recano tutte i segni di un trascorso violento e per il regista sono i luoghi tanto fisici quanto mentali di un legame con il Paese d’origine che la dittatura di Pinochet ha bruscamente interrotto. In fuga verso l’Europa dopo aver realizzato l’epico La battaglia del Cile, Guzmán ha oggi 77 anni, più della metà dei quali trascorsi lontano dalla propria patria. È questo drammatico strappo, e il pensiero di tutti coloro che sono rimasti mentre lui se ne andava, a portarlo costantemente indietro nel tempo e nello spazio e raccontare ancora una volta gli eventi di una tragedia immane e di fronte alla quale nessuno poteva dirsi veramente cieco o inconsapevole.
Dei tre film, La Cordillera è quello meno intenso e ricercato, anche perché per tutta la prima mezz’ora la connessione con la cordigliera andina pare forzata e senza reale nesso con la storia che si intende raccontare. Ma con la comparsa in scena del collega Pablo Salas, l’opera prende nuova forma e consistenza grazia ai materiali filmati dal regista negli anni della dittatura. Si rivela così il volto pubblico di atrocità il cui versante sommerso e privato solo la finzione ha potuto raccontare (i film di Pablo Larraín): la polizia in tenuta anti-sommossa che manganella donne e anziani, il getto degli idranti sui manifestanti che cantano su una scalinata, i mortai e i fumogeni gettati nel mezzo di una contestazione pacifica, l’accanimento di pugni e calci su persone stese a terra testimoniano la violenza di un momento di buio profondo, storico e umano. Il passato torna a galla in maniera brutale e, quarant’anni dopo, le ferite non sono ancora rimarginate.
L’operazione di scavo di Guzmán prosegue in quello che potrebbe essere il suo ultimo film, il testamento di una vita intera trascorsa a scrutare la geografia di un territorio nelle cui fratture si sono sedimentati decenni di rimozione. Il cinema diventa allora lo strumento per tornare dove ora non vi sono che macerie – come nella scena in cui si mostra la casa sventrata in cui è cresciuto il regista da giovane – l’unica possibilità per restituire concretezza a un passato la cui memoria rischia di dissolversi. Se non fosse per le centinaia di videocassette analogiche di Salas, nelle quali è impresso, indelebile, ciò che nel futuro non si dovrà mai scordare. [Alessandro Stellino]
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