Vado avanti così, misurando il tempo con lo spazio,
ma mi sembra di restare fermo.
G. Vasta, Il tempo materiale
«Chi ha rubato la luna?», è la domanda che viene posta dalla voce narrante al termine del viaggio atemporale innescato da Fausto, opera tanto sfuggente quanto ammaliante della regista canadese Andrea Bussmann presentata alla scorsa edizione del festival di Locarno.
L’oscurità totale sembra ormai alle porte: inghiotte luoghi, cose e persone e semina il caos, nonostante i personaggi continuino a raccontare storie nelle quali è riposta la speranza di ritrovare un’identità o, quantomeno, un corpo (da cui affiora la Voce, onnipresente nel film) che sia perimetrato, euclideo, rassicurante. E più che nella notte, progenitrice benigna dalla quale sgorgherà la luce, il microcosmo dimenticato che si estende lungo la costa messicana dell’Oaxaca pare piombato nelle tenebre mortifere e infernali.
Ogni dettaglio si presenta in forma ibridata, in una viscosità che fa resistenza alla macchina da presa. L’immagine è granulosa e organica – soprattutto per via del passaggio dal video alla pellicola 16mm –, avvolta da una patina capace di trasfigurare anche gli oggetti più emblematici della contemporaneità (cellulari e computer che, tra l’altro, subiscono continuamente interferenze per via dell’alto contenuto di ferro nella spiaggia), facendogli assumere una connotazione auratica che mira a una specifica forma di permanenza propria del tempo incommensurabile.
I personaggi faustiani che popolano il luogo sono insoddisfatti della condizione umana e di quel sapere che si può raggiungere seguendo un percorso accademico. Pertanto, faustiana è anche la loro sofferenza. Si resta affascinati con estrema facilità dalle possibilità offerte da una conoscenza esoterica che vada oltre gli steccati del senso comune per aprirsi, invece, a una «spazialità illimitata» che «corre attraverso tempi senza fine» [1], votata per questo all’anima o, perlomeno, alla trasmigrazione extracorporea di essa. Il malessere non può che espandersi, oltrepassare il corpo e perdersi nell’anima universale “vaporizzata”, analogica nel suo investire la sfera del non-umano, ossia di tutto ciò che l’uomo è solito confinare ai bordi dell’esistenza.
La presenza degli animali permette così di completare il processo di adeguamento degli uomini che, mediante la telepatia o lo svagato aggirarsi in uno zoo o al museo di storia naturale, cominciano a parlare/far parlare l’animale e, di fatto, ad accostarsi ai misteri insondabili del proprio cuore di tenebra, scoprendo che «viviamo in un universo consapevole, anche se non lo sappiamo».
Creatura di una regista e studiosa di antropologia culturale, Fausto non mira alla destituzione o alla dissoluzione dell’umano – soggetto per eccellenza dell’arte – quanto all’allargamento semantico di tale categoria e alla difesa “animista” di punti di vista materialmente differenti ma omologhi nell’interiorità. Non è poi di primaria importanza rimarcare le differenze fisiologiche, ma riflettere su quelle determinate da modi dissimili di essere: aleggia così il fantasma di una pantera nera (che ad alcuni potrebbe rammentare la seconda parte di Tropical Malady (2004), capolavoro di Apichatpong Weerasethakul); o ci si rivolge ad animali ciechi che, se accarezzati in senso orario, possono rivelare porzioni del futuro.
Allentare la presa della propria anima singolare sarà, forse, tappa necessaria per raggiungere un altro tipo di sapere (e di potere). Da qui, la perdita dell’ombra e la sua riapparizione che fa trasalire il legittimo proprietario, sgomento perché essa si presenta priva di un braccio. In tal modo, il Faust(o) goethiano si accosta sempre più al Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso: l’ombra non è una banale sineddoche simboleggiante il lato oscuro dell’animo umano – e della luna –, ma soprattutto traccia visibile di una vita che non si dissipa totalmente nella carne, segno dell’Esserci di ogni individuo.
Timidi bagliori squarciano il buio traboccante in ogni inquadratura, come se la macchina da presa – ennesimo punto di vista non umano, eppure troppo umano – volesse scandagliare ciò che non può essere visto: dove inizia e dove finisce un corpo? Continua forse nelle narrazioni altrui e, per questo, gli si possono anche destinare più sepolture, come nel caso dell’escondida Susanna Rodríguez? E a chi appartiene quella voce narrante, colta a volte in leggero fuori sincrono rispetto alle immagini? Essa è forse l’indizio dell’inganno colonialista – poiché fu proprio Cristoforo Colombo l’uomo che fece credere agli indigeni di poter rubare la luna – e, altresì, dell’inganno del cinema, un rischio che bisogna però correre per cercare di entrare in sintonia con il battito delle stelle. Tra un lampo e l’altro, l’oscurità. Tra uno stacco e l’altro, il residuo esistenziale. Perché è attraverso l’Altro che il proprio sé potrà essere mostrato.
[1] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 2017, p. 204.