Sempre più spesso l’espressione – nonché l’intento di – “dare voce a qualcuno”, come possibile soluzione narrativa che rispetti l’esperienza dei soggetti di cui si racconta la storia, mi pare sia soltanto una concessione, raramente davvero in grado di abbattere le gerarchie e ampliare lo sguardo parziale di un autore. Reinventare un immaginario che sappia sabotare la reiterazione di certi pattern e cliché rappresentativi non può essere il risultato della falsa sparizione di chi guarda, di chi scrive, di chi racconta. Ciò che rende straordinario Selfie (Italia/Francia, 2019), il film che Agostino Ferrente ha presentato nella sezione Panorama dell’ultima edizione della Berlinale, è esattamente il modo in cui il regista è riuscito con la sua costante presenza a farsi da parte, collaborando attivamente con i suoi protagonisti senza mai lasciarli da soli. Invece di porsi come guida saccente o, al contrario, concedere uno spazio di libertà fittizia, Ferrente ha dato loro indicazioni sull’uso del dispositivo fotografico e (auto)narrativo oggi più diffuso: il selfie. Così Ferrente, riesce in un brillante esperimento di regia che è allo stesso tempo una proposta pedagogica: invece di stigmatizzare un mezzo tecnologico mainstream lo esplora investendolo di una dolcezza ferma insieme ai suoi utenti più assidui, gli adolescenti.

Nel 2014, Davide Bifolco, 16 anni, viene ucciso durante un inseguimento nel rione Traiano di Napoli da un carabiniere che lo scambia per un pregiudicato in fuga. Il regista, consapevole di come sia rischioso portare Napoli sullo schermo senza cedere agli stereotipi mediatici e cinematografici oggi più radicati, decide di raccontare questa storia cercando nel quartiere di Davide ragazzi della sua età che lo hanno conosciuto e che hanno una vita simile alla sua. Così per caso, il regista, si imbatte in uno dei suoi protagonisti, Alessandro, il ragazzo del bar vicino che porta i caffè durante i provini. Il ragazzo ha un amico inseparabile, Pietro, apprendista parrucchiere che sperimenta su Alessandro e sul padre i suoi tagli ancora imperfetti. Ferrente dà loro un telefono ciascuno e istruzioni su come filmare la loro vita quotidiana durante una calda estate in città: un selfie decentrato, un autoritratto che includa anche ciò che accade alle loro spalle. Questo piccolo spostamento di prospettiva e di inquadratura è sufficiente a smorzare, fino ad annullarla, la posa narcisista e a fare del selfie una finestra reale sulle giornate di Alessandro e Pietro. Scegliere di far parlare due ragazzi che non vogliono essere identificati con la criminalità del rione non è un espediente buonista per edulcorare la realtà e, del resto, gli altri sedicenni intervistati e (auto)filmati descrivono con una schiettezza disarmante l’adolescenza a Traiano, le poche prospettive sul futuro e il rapporto con i loro familiari in carcere. La tragica e ingiusta storia di Davide emerge progressivamente, dai racconti degli amici, dalla visita che Alessandro e Pietro fanno a casa dei genitori del ragazzo, dal sogno di Alessandro in cui la vicenda dell’omicidio dell’amico si incrocia con l’assenza del padre e, soprattutto, per analogia con le vite dei protagonisti, senza eroismi, vittimizzazioni o espedienti emotivi che abbiano facile presa sullo spettatore.

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Proprio perché Selfie si sottrae con successo al filone sulla Napoli malavitosa, l’esperimento di regia di Ferrente dialoga profondamente con un film apparentemente lontano come Nos défaites (Francia, 2019) di Jean-Gabriel Périot – presentato nella sezione Forum. Il regista francese ha collaborato per due mesi, da maggio a giugno 2018, con dieci studenti del liceo di Ivry-sur-Seine – la stessa scuola dove Claire Simon ha girato Premières Solitudes (Francia, 2018) – chiedendo loro di lavorare sia come protagonisti che come operatori e di rimettere in scena estratti di film d’autore che hanno segnato gli anni della rivolta francese dal ’68 alla fine degli anni ’70: tra gli altri, La Cinese di Jean-Luc Godard, Comrades di Marin Karmitz, À bientôt, j’espère di Chris Marker e La reprise du travail aux usines Wonder di Jacques Willemont. Un progetto che nasce con l’esplicito intento di unire cinema e politica senza che ciò, di fatto, accada per davvero: forse però più che l’esito di un progetto malriuscito, è il risultato ricercato fin dall’inizio da Périot che sceglie di “imprigionare” i suoi giovani protagonisti all’interno di un reenactment in bianco e nero. Le parti in cui vengono reinscenati gli scioperi, i sit-in e le occupazioni delle fabbriche si alternano con un’intervista di Périot ai ragazzi su alcuni aspetti chiave della rivolta del ’68, come il concetto di classe, il ruolo dei sindacati e il valore dell’impegno politico. La complessità del linguaggio e del pensiero teorico e politico del film dentro al film stridono con la maggior parte delle risposte sul presente e sul futuro, la rivoluzione sembra un oggetto gigantesco e astratto fuori dalla portata del singolo così come di un’azione collettiva. Di fronte all’obiettivo e alle domande del regista (in voce off), i ragazzi diventano inesperti, fragili e goffi e, a parte qualche rara eccezione, quello che trapela è l’impossibilità di immaginare un cambiamento, quella rassegnazione a cui fa riferimento il titolo del documentario. L’unico momento che sembra opporsi a questo clima generale, arriva forse troppo tardi, nell’ultima scena, quando gli studenti occupano la scuola in seguito all’arresto di un loro compagno che ha dipinto un graffito sulle pareti dell’edificio.

Périot è riuscito indubbiamente a produrre un lavoro esteticamente potente avendo a disposizione un setting molto scarno – le aule e gli spazi esterni del liceo –, ma l’attenzione per i volti non corrisponde a una cura profonda per i personaggi, all’apertura di un confronto reale. Se è vero che il film si muove all’interno di una cornice temporale e geografica ben precisa, rimane uno sguardo troppo parziale in cui non si intravedono le esperienze politiche degli ultimi anni come quello della Primavera Araba o la nascita recente del movimento March for Our Lives. Il “Nos” di “Nos défaites” è sicuramente sia un riferimento all’apatia del contemporaneo che un’ammissione di responsabilità delle generazioni precedenti, ma il confine con il paternalismo è forse troppo labile e, soprattutto, ci si chiede se non abbia più senso fare incontrare cinema e politica nella ricerca di un metodo che sia al contempo appassionata pedagogia e resistenza ai paradigmi narrativi dominanti.