“Mi auguro che il mio nuovo film faccia talmente arrabbiare le autorità israeliane che mi revochino la cittadinanza. In questo modo non avrei altra scelta che andarmene e vivere in esilio in Francia o da qualche altra parte”. Osservando Nadav Lapid mentre pronunciava queste parole, ci si rendeva conto che non era una boutade. Lo sdegno sincero nei confronti delle politiche della destra israeliana, la consapevolezza di essere parte di una elite suo malgrado (“Vivo nella mia bolla a Tel Aviv”), la frustrazione nei confronti dell’antisemitismo in Europa, l’essere in polemica con un alfiere della causa palestinese come Ken Loach reputato in malafede per alcune sue affermazioni, l’appoggiare il boicotaggio nei confronti di Israele nella consapevolezza che proprio la cultura, l’ultima forma di dissenso rimasta nel paese, non andrebbe silenziata, l’impotenza nei confronti della deriva verso l’ultradestra revisionista di Bibi e camerati sono solo alcuni degli elementi entrati a far parte della lavorazione di Synonymes. E non dimentichiamo che il film – prodotto da Saïd Ben Saïd – ha dato poi vita a una bruciante polemica sulla presenza dell’antisemitismo nella cultura araba alimentata dal produttore tunisino con un lungo articolo sulle pagine di Le monde. Tutto questo non per fare dell’aneddotica ma per evidenziare come alla base del film che ha conquistato l’Orso d’oro a Berlino agisca un grumo irrisolto di furori che nel film trovano magnifica espressione formale, mai banalmente didascalica.
Lapid reinventa con sapiente ironia il mito dell’ebreo errante, mettendo in scena un corpo strappato alla sua lingua, alla sua terra, alla sua famiglia. Si ritrova nudo nel nuovo mondo e parla un francese incongruo, come di chi l’abbia imparato guardando i film di Godard e leggendo i vocabolari tascabili Larousse. Nell’ultimo film montato da sua madre Era, già collaboratrice di David Perlov, il regista muove la macchina da presa come se dovesse strapparla letteralmente da terra e da eventuali percorsi prestabiliti. Le inquadrature cercano sempre una posizione scomoda per il protagonista, in fuga dal suo mondo e mai accolto in quello che desidera, una Francia astratta, idealizzata, la parodia di un desiderio di altrove. Il montaggio – poi – sembra inseguire la massima di Lacan: “Le réel, c’est quand on se cogne…”, e quindi (s)monta il film in un corpo a corpo esilarante ed esaltante per violenza. Nadav Lapid, nell’inseguire il suo protagonista, mettendo in scena quel che sin da ora può essere considerato uno dei film definitivi di questi anni sulla nozione di alterità ed esilio, in fondo chiede la cittadinanza e il diritto di asilo a un paese che non esiste, se non come insieme di desideri e possibilità: il cinema. Ogni movimento di macchina è una preghiera innalzata agli dei di quest’arte, ai primi film di Bertolucci, a quelli di Godard. Ma non come pigra postura feticista, piuttosto come necessità di condividere un linguaggio, una parola. Il cinema diventa così sinonimo di un paese che non esiste più e che non esisterà mai. Mentre invece il paese ancora possibile del cinema lo si può rifondare ogni volta che si muove la macchina da presa. Ed è nelle corse di quella di Nadav Lapid che finalmente si può ipotizzare di dare forma a un’assenza di cui ancora una volta solo il cinema si offre come ironico sinonimo; mancanza prodotta da un lavoro che può essere visto. Ripetuto. Trasmesso. Synonymes è un film complesso e gioioso. Il film che fa di Nadav Lapid uno degli autori indispensabili dei nostri anni.