“Salve. Volevo dirle che lei è molto bella”, disse il pittore a una prostituta avvicinata estemporaneamente per strada, prima di andarsene altrove. Sono i primissimi istanti di Le Cœur fantôme (1996), pellicola che più di tutte affronta la morte del padre tra quelle di un universo cinematografico, quello di Philippe Garrel, la cui reciproca, impressionante, progressiva convergenza con il cinema di Hong Sang-Soo è sempre più difficile da negare.
Anche in Gangbyun Hotel c’è un padre anziano, prossimo alla morte. Si tratta del poeta Younghwan; anche lui, incidentalmente, alla vista di due donne che si stagliano su un paesaggio innevato, lascerà in una delle prime scene il tavolino del bar a cui è seduto e correrà fuori a ringraziarle dell’impagabile immagine di grazia da loro offerta (dopo che loro stesse, peraltro, si erano prodigate in un’analoga contemplazione). Nessuna malizia in quel gesto: esso lascia piuttosto intravedere la possibilità del superamento della differenza sessuale, della strutturale incompatibilità tra i sessi, e dell’eterna tensione da essa conseguente. È intorno a questa possibilità che il film intero è costruito: Younghwan, che pure ha vissuto rapporti assai burrascosi con l’altro sesso durante tutta la sua vita, avvicinandosi alla morte certifica l’aver raggiunto una qualche saggezza, un qualche distacco rispetto ad essi. Gli inestirpabili conflitti tra i sessi, ora il vecchio poeta può guardarli con la serenità della distanza. Le sue battaglie le ha combattute (compreso l’abbandono di moglie e figli per scappare con un’altra), ma ora può dirsi che, avendo conosciuto l’amore per davvero, non ha più niente da chiedere alla vita, anche se da quell’amore post-matrimoniale fu a propria volta abbandonato.
Sulla tensione e incompatibilità strutturali tra i sessi, Hong Sang-Soo ha fondato un’intera carriera, e già più di dieci anni fa aveva intitolato un suo film “La donna è il futuro dell’uomo”. Aforisma, questo di Louis Aragon, di cui non deve sfuggire nessuna delle sue due interdipendenti accezioni.
La prima, la più immediata, è che la donna è il sintomo dell’uomo: l’esistenza stessa della donna segnala all’uomo che a quest’ultimo, strutturalmente, “manca qualcosa”. Proprio per questo, l’uomo sembrerebbe condannato ad oscillare eternamente tra le due facce di una medesima, obbligata misoginia: da un lato la proiezione reattiva della propria incompiutezza sulla donna, riconosciuta come l’epitome stessa della mancanza; dall’altro, l’immaginare il gentil sesso nei termini di un compimento utopico delle proprie mancanze. E a questo riguardo Hong, partendo da uno sguardo sul rapporto tra i sessi risolutamente maschile, è senza dubbio già da molto tempo, e da molti film, arrivato il più lontano possibile: non solo alla dissezione implacabilmente precisa dei difetti dell’uomo (narcisismo, immaturità, egocentrismo etc.), ma anche all’ammissione che la conseguente visione utopica della donna è appunto nulla più che un’illusione generata da quelle stesse mancanze. On the Beach at Night Alone (2017) segna una torsione particolarmente perversa proprio di questa immaginazione utopica, perché se da un lato, con quel film, Hong cerca di venire a capo autobiograficamente della fine della propria relazione con l’attrice (e assai discussa ex amante) Kim Min-Hee, è proprio a un sogno della protagonista da lei interpretata che egli affida il momento in cui, finalmente, lei e il regista diegetico chiaramente chiamato a simboleggiare lo stesso Hong riescono a fare chiarezza sul proprio rapporto. Sarebbe insomma l’immaginazione di lei (così come, appunto, se la immagina lui) a trovare quella trasparenza nell’articolare i rapporti tra un uomo e una donna specifici (l’attrice e il regista stessi), che lui stesso invece cerca invano da decenni sul piano più generale dei rapporti tra i sessi in quanto tali.
Rispetto, tuttavia, a tutti i suoi precedenti, Gangbyun Hotel per la prima volta in assoluto lascia tutti gli attriti di coppia rigorosamente fuoricampo, e si concentra su due serie in parallelo, fianco a fianco nel medesimo albergo: da un lato il padre che, sentendosi prossimo alla fine, chiama a sé i due figli (maschi), e dall’altra due amiche che reciprocamente e affettuosamente si consolano delle rispettive magagne amorose. Se queste sono ineccepibilmente solidali, gli altri sono infantili fino al ridicolo: uno, all’alba della mezza età, sfoga continuamente i propri complessi dovuti alla sua altezza con frecciatine continue ai danni del fratello, e non ha il coraggio di rivelare al padre che (anche lui!) ha recentemente divorziato; l’altro, schiacciato da una figura materna ingombrante, ha paura delle donne e mantiene la propria identità sessuale in un’ambivalente zona grigia per pura codardia. Ma anche nel rapporto tra le due donne non mancano le incrinature: si rimane interdetti davanti alla sicurezza con cui la donna più anziana e scafata afferma che tutti gli uomini sono immaturi, “tranne poche eccezioni, tra cui mio marito”, così come davanti all’attaccamento morboso dell’altra per un uomo palesemente indegno. E quella sua bruciatura sulla mano? E perché dell’altra si sa solo che “non deve essere stato facile per lei”, senza che nulla ci venga detto di quanto sia successo? Se da un lato, dunque, le due donne appaiono come il compimento proiettivo delle mancanze degli altri due uomini, dall’altro il ritratto che ce ne viene offerto è in se stesso, a propria volta, lacunoso e incompleto.
La seconda accezione del motto di Aragon non è, tuttavia, meno importante, perché introduce la dimensione temporale. La donna non solo è il sintomo dell’uomo, ma ne è il futuro. Agli occhi limitati dell’uomo, impigliato tragicomicamente nella differenza sessuale (dunque nel desiderio etc.), la donna abiterebbe un punto magicamente al di là di quella differenza, e al di là della tensione che ne deriva. Ed è un punto che all’uomo parrebbe accessibile solo nel momento estremo del proprio cammino, ovvero con la morte. Ce lo conferma la straziante dissolvenza incrociata che chiude il film, la quale giustappone il cadavere del protagonista alle due donne che piangono, abbracciate, nel sonno. Un effetto retorico tanto strepitoso quanto elementare, ma soprattutto perfettamente ambivalente: esso potrebbe suggerire in modo ugualmente legittimo sia che le due donne, grazie alla loro condivisione empatica, riescono ad andare oltre quei rispettivi attriti di coppia che pure fanno ancora versare loro calde lacrime (mentre a questo “oltre” l’uomo arriva solo morendo), sia che esse, invece, starebbero sognando proprio Younghwan. E lo sognano piangendo, perché lui stesso è l’immagine di un definitivo lasciarsi alle spalle la differenza sessuale che è impossibile persino per loro, perché se da un lato le due donne se ne pongono nettamente al di là, dall’altro esse continuano a soffrirne gli effetti. Come in On the Beach at Night Alone, siamo dunque dalle parti di un “chi sogna chi?”.
Le donne, dunque, secondo la limitata ottica maschile che Hong non può non abbracciare, sembrerebbero avere il dono della simultaneità (dunque della compassione), cui l’uomo avrebbe accesso solo con la morte. Prima, l’uomo è impigliato tragicomicamente in un eterno gioco di décalage temporali. Ed è appunto su questi décalage temporali (quelli in parte sperimentati in The Day After, 2017) che Gangbyun Hotel gioca continuamente. Durante un lungo monologo di Younghwan al tavolo di un caffè con i figli, la macchina da presa sembra operare uno stacco in avvicinamento verso il fiume che si vede sullo sfondo, al di là del vetro dietro i personaggi: e invece, un’ulteriore panoramica verso sinistra rivela che questo stacco ha, in realtà, inaugurato un flashback, poiché vi scorgiamo Younghwan non seduto al tavolo, ma sulla riva del fiume, in un momento evidentemente diverso e precedente. Quando Younghwan lascia la sua camera per incontrare i figli, l’uno e gli altri siedono senza accorgersene per lungo tempo in punti diversi del medesimo bar. Più tardi, i figli smanettando con lo smartphone non si accorgono che il padre che stanno cercando è proprio sotto ai loro occhi, nella neve al di là della finestra accanto a loro. L’ironia risiede naturalmente nel fatto che se nulla come lo smartphone è l’epitome della simultaneità comunicativa, proprio a causa degli smartphone i due non si accorgono della simultaneità in atto, nel medesimo spazio, tra loro stessi e colui che stavano cercando. La simultaneità non è dunque affare maschile, ma femminile.
E non è un caso se, tra le molte definizioni succedutesi nei secoli di cosa sia la poesia, una delle più tenaci sia quella che in essa vede l’invenzione di un piano immaginario di simultaneità, nel quale si trovano giustapposti elementi tra i quali non sussisterebbe altrimenti alcuna sequenzialità logica. Il poeta Younghwan sembra saperlo bene. Nel prefinale, le due donne e i tre uomini cenano, per caso, nello stesso ristorante, in due tavoli vicini. Rimasto solo, davanti all’ingresso, dopo avere fatto tornare in albergo i due figli con l’inganno, Younghwan torna dentro al ristorante, e siede insieme alle due donne non solo per ribadire la sua innocente adorazione, ma anche per leggere loro un’astrusa poesia composta poco prima, che mescola bizzarramente benzinai, potentissime organizzazioni segrete, bambini col dente storto di cui la gente si innamora e soprattutto una neve che scende perennemente indisturbata all’inizio, alla fine e nel mezzo delle cose. Ciò che essa racconta, in buona sostanza, è una promessa di raggiungere un Altrove (e nel cinema di Hong “Altrove” è soprattutto quel punto che sta al di là della differenza sessuale) che sbatte contro una sostanziale immobilità. Rimanendo immobili, le cose non si raggiungono mai le une con le altre, ma rimangono sempre le une a fianco delle altre. Perché in fondo, la cifra più fondamentale di Gangbyun Hotel, è la prossimità. Certo, “la donna è il futuro dell’uomo”, ma è irraggiungibile non in quanto troppo lontana nel tempo (“prossima”), ma in quanto troppo vicina nello spazio (sempre “prossima”, ma in senso diverso). Fino alla già citata dissolvenza finale, e non da ultimo con i suoi famosi zoom e mezze panoramiche, Hong insiste moltissimo sullo stare “accanto” di un elemento con l’altro: i due gruppi al tavolo, le automobili dei personaggi, il protagonista e le due donne divisi da un corridoio, il vetro che divide e raccorda esterno e interno, il quartiere coi ristoranti a due passi dall’albergo… Non sarà un caso se per uno dei suoi figli Younghwan ha scelto un nome contenente una particella che significa “fianco a fianco”. E proprio lui viene raccordato esplicitamente dal montaggio alla poesia di Younghwan: il figlio più giovane, quello che rincorre disperatamente un padre che non ha mai davvero conosciuto senza rendersi conto che lui stesso “è già” suo padre, poiché la sua asessuatezza è solo l’altra faccia del senile avvicinarsi, da parte di Younghwan, al punto terminale in cui la differenza sessuale viene revocata, e con essa ogni tensione e incompatibilità tra i sessi. Un punto terminale che è altrove, ma che le donne, secondo la limitata ottica maschile, vivrebbero come se fosse già qui.
Alla luce di questo, si capisce meglio perché Younghwan abbia sentito il bisogno di accompagnare alla sua tenera dichiarazione quel suo strano ultimo componimento. Se la differenza sessuale è una questione di temporalità, perché solo il femminile (secondo la limitata ottica maschile) avrebbe accesso alla simultaneità, le dichiarazioni completamente disinteressate di ammirazione verso l’altro sesso non bastano a sancire il superamento della differenza sessuale: ci vuole qualcosa che riesca a redimere l’impossibilità maschile di raggiungere la simultaneità. La poesia, per Younghwan, è precisamente questo: è l’esercizio di una simultaneità solo formale che redime una temporalità (quella maschile) che ottusamente non cessa di inciampare mentre tende verso la simultaneità compiuta (il femminile). Per questo la poesia arriva solo quando Younghwan non si fa trovare di proposito dai figli dopo che, al capo opposto del film, i tre semplicemente si cercavano nello stesso luogo senza trovarsi: la forma poetica è precisamente l’appropriazione cosciente degli incidenti del tempo, ovvero l’appropriazione, attraverso il tempo (cioè attraverso la sequenzialità logica delle parole, giocata per così dire contro se stessa), di una simultaneità a cui il tempo non ha accesso.
Significativamente, Hong affida alla poesia il momento in cui più vertiginosamente visualizza l’avvicinarsi, da parte del maschile, di quell’al di là della differenza sessuale in cui il femminile sta ambiguamente dentro e fuori a priori, mentre invece il cinema è la professione del figlio di Younghwan, ancora incapace di abitare compiutamente l’al di là della differenza sessuale in cui pure si trova (a differenza del padre poeta che ormai vi si è già pienamente installato). Questo perché già da tempo Hong cerca di lasciarsi alle spalle il pur sopraffino formalismo visuale dei suoi primi film. La prima parte della sua filmografia, in modo non meno programmaticamente freudiano del cinema di Garrel, affidava a una messa in scena squisitamente (e talvolta rigidamente) geometrica la visualizzazione plastica della differenza sessuale, quasi proponendosi di trapiantare sullo schermo il gioco infantile del “rocchetto fort-da” attraverso il quale, ne Al di là del principio di piacere, Freud esemplificava l’articolarsi dello spazio come innanzitutto misurazione della distanza rispetto all’origine (dunque alla madre, dunque al femminile). Right Now, Wrong Then, Pardo d’Oro a Locarno 2015, inaugurava una fase nuova: riscrivendo radicalmente Virgin Stripped Bare by her Bachelors, film che nel 2000 aveva cominciato ad imporre Hong all’attenzione internazionale e che opponeva rigidamente un “punto di vista maschile” e un “punto di vista femminile” sui medesimi eventi, Right Now, Wrong Then mantiene la differenza sessuale come forza motrice degli eventi e come origine di una disparità di punti di vista paralleli, negando tuttavia l’assegnabilità di una definita identità sessuale su ciascuno di essi. E allontanandosi dall’identificabilità, la differenza sessuale cominciava, in quel film, ad allontanarsi giocoforza anche dalla possibilità di una sua visualizzazione grafica: per quanto anche in precedenza ci fossero state avvisaglie sparse che andavano in quella direzione, Right Now, Wrong Then apre un capitolo nuovo, nel quale Hong cerca di trascendere le sue geometrie, e di trascendere anzi la flagranza visuale della sua stessa forma filmica nascondendola nel suo contrario. Ecco dunque la fascinazione per i paesaggi desertici, privi di quelle linee di forza che la sua cinepresa eccelle nel tracciare, già al centro di On the Beach at Night Alone prima del fiume innevato di Gangbyun Hotel. È come se Hong prima abbia voluto usare il cinema per smentire il luogo comune per cui uomini e donne sarebbero due rette parallele, per illustrare più esattamente che sono un asintoto, ovvero una retta e una curva destinati ad avvicinarsi sempre e non incontrarsi mai. Ma poi, non contento, Hong ha come zoommato sulla curva, e sulla retta, per scoprire che nessuna delle due è fatta di punti: a guardarli bene, quelli che sembrano punti sono invece tutti piccoli asintoti a sé stanti, vertiginosamente. Hong, insomma, sta cercando sempre più di cancellare ogni estrinsecazione grafica della differenza sessuale, a favore di un’uniformità che, guardata da vicino, si rivela pericolosamente irregolare e incoerente, strapiena di punti difformi che ne negano la consistenza (e abbiamo già visto come inconsistente sia, in Gangbyun Hotel, la caratterizzazione stessa delle due donne). Se il punto, in quanto unità minima della linea (retta o curva), è l’elemento che più favorisce l’illusione di essere parte di uno scorrere temporale, con questo nuovo assetto Hong si piazza ancora più di traverso di prima rispetto alla raffigurabilità coerente del tempo, con mezzi diversi ma fini analoghi rispetto all’attaccamento malinconico garrelliano per l’immagine dell’oggetto perduto (e per il conseguente collasso del passato sul presente), feticizzata dal suo inconfondibile bianco e nero. Alla tessitura geometrica delle relazioni tra i sessi, in Gangbyun Hotel si sostituiscono soluzioni registiche squisitamente occasionali, dal dispiego figurativo molto meno arioso rispetto ai primi film, e invece quasi “anchilosato”, costretto agli spazietti ristretti dell’albergo. Si tratta, potremmo dire, di lapsus della trasparenza, di momenti che restituiscono un’evidenza in qualche modo spaziale (ma in un modo molto meno figurativo di prima) all’incepparsi dell’ipotesi sequenziale, per la quale a un punto dovrebbe seguirne un altro in modo da formare una linea retta. Come quando Younghwan dice che di lì a poco tornerà a casa per prendersi cura del gatto, giusto pochi minuti prima che sullo schermo appaia il figlio alla ricerca di Younghwan (nel frattempo momentaneamente scomparso)… e seguito a breve distanza da un gatto, sulla medesima traiettoria, senza che l’inquadratura sia cambiata. Sono queste increspature che fanno la tessitura di Gangbyun Hotel. La compresenza di padre e figli nello stesso bar, inconsapevoli che sono tutti già lì e che stanno reciprocamente aspettandosi, dieci o vent’anni fa Hong ce l’avrebbe mostrata con un campo lungo sul locale o con qualche panoramica a schiaffo tra i personaggi in modo da geometrizzare la loro posizione nello spazio; oggi, Hong mostra l’uno e gli altri separatamente, in momenti diversi del montaggio, conservando una parte di ambiguità circa la loro collocazione temporale.
Per la prima volta, Hong filma la morte. Per la prima volta, e ponendosi in implicita contrapposizione con tanta serialità “di qualità” americana contemporanea che cerca di mettere il femminile su un piedistallo in maniera fin troppo non-problematica nascondendosi dietro la dilazione infinita del redde rationem narrativo, Hong arresta davanti a un momento terminale quell’incessante ripetizione e variazione dell’invalicabilità della differenza sessuale che informa da sempre il suo cinema. Continuandosi ad allontanare da un principio di mera costruzione (“queste piante vanno annaffiate”, ripete due volte Younghwan) per avvicinarsi sempre di più a uno di deliberata sbozzatura delle discontinuità e delle incongruenze di un piano altrimenti “liscio” (“toh, che strano, le gazze fanno il nido sui rami con questo freddo”, ripete due volte la più giovane delle due donne) in cui la forma si è inabissata tendendo verso la cancellazione prima di riemergere come poesia (ovvero come forma pura della simultaneità), Hong prova a farci vedere come questo punto terminale, finalmente al di là della differenza sessuale, dell’incompatibilità tra i sessi e delle loro tensioni, sia già qui. Entrambi i figli di Younghwan ripetono, in misura diversa, gli stessi errori e le stesse mancanze del padre; sono ancora “in corsa”, non hanno (ancora) il suo sovrano, senile distacco, ma sono comunque già lì, già alla meta, senza rendersene conto. Hong prova insomma a tirarci fuori a forza dalle tragicomiche limitatezze dello sguardo maschile, che suppone questo punto terminale solo al termine di una corsa che presume di star ancora correndo, mostrandoci che esso è invece “prossimo” anche in senso spaziale, virtualmente dappertutto.