Perimetrare i confini di uno spazio sostenibile – una casa di campagna isolata dal resto dalla città – per vivere un tempo altro da quello consegnato al senso comune, e amplificare la percezione, pacata e rigorosa, di una personalissima solitudine, dove persino ai gesti più ordinari sia concessa una distaccata verifica quotidiana. Non c’è un vero personaggio in J, il mediometraggio di Gaetano Liberti presentato nella sezione Perspectives dell’International Film Festival Rotterdam dopo le selezioni al FIDMarseille e al Beijing International Short Film Festival: c’è piuttosto un’idea di vita, un immaginarsi nel mondo, incarnato in una figura sfuggente e frammentaria, un nome risolto in un’iniziale, che per mestiere e attitudine cartografa l’esistente e nei tracciati delle mappe, nelle loro sigle, forse distrae le ineludibili tensioni relazionali da cui sente minacciato il proprio equilibrio.
L’incontro non meno misterioso con una donna che è anzitutto sguardo e riflesso testimoniale dell’altro, dissolve la campana di vetro che separa J dai suoni, le azioni e le immagini che lo circondano. Non è l’inizio di una drammaturgia, ma il contraltare performativo dell’ascetismo di partenza: una vicinanza (lei nasce forse da lui?) che parla di un amore refrattario alla sintassi, e invita le emozioni a separare l’uomo dalla sua realtà, obbligando a ridisegnare le mappe interiori e forse esponendolo al rischio della collisione. Così, se è vero che ogni legame è anche legame con il dolore, il suo mancato attraversamento potrebbe segnare una condizione di perenne oblio, l’impossibilità di essere stati nell’impossibilità di essere ricordati.
Ellittico e quasi impenetrabile ma mai respingente, il lavoro di Gaetano Liberti, già allievo di Béla Tarr, porta con sé il fascino inedito e diretto di un film laboratorio, dove è soprattutto la forma a svolgere un ruolo di interesse per la capacità di sondare il territorio della percezione. La timeline – espressione per una volta non solo tecnica – si apre a un ricco potenziale combinatorio che dilata i ritmi e quasi dissolve nel sogno il punto di vista, stratificando l’interpretazione dell’immagine, agendo su colori improvvisi a rompere il bianco e nero dominante, proponendo inattesi movimenti di macchina (la soggettiva obliqua di una palla da biliardo): nel seducente taglio di messinscena che ne deriva, a una finzione quasi artigianale corrisponde un fortissimo tasso di straniamento. L’anti-naturalismo che il film abbraccia rompe ogni convenzione del racconto sentimentale, riecheggiando, quasi in filigrana, le lezioni della modernità. Un cinema non privo dunque di un valore politico, che oggi richiede un certo coraggio per essere fatto, ma che sempre sorprende poter ritrovare, e con simile coerenza, agli esordi di un cineasta indipendente.