Dove lo spazio e il tempo cessano di esistere, al di là del sistema solare, vivono un padre e una figlia in completo isolamento. Cosa significa essere umani, in una navicella fatiscente e lontani anni luce da qualunque altro tipo di contatto? High Life di Claire Denis – meraviglia sci-fi che sta facendo il giro dei festival mondiali, da Toronto alla Viennale, fino al Torino Film Festival – pone decine e decine di domande, e chiede di accettarne il mistero. Si può dire che per Denis la fantascienza non sia che un orpello, un elemento meramente funzionale, utile tuttavia a creare un distacco potente e alienante dalla civiltà; un po’ come – sia chiaro, coi debiti distinguo – per il Damien Chazelle di First Man, che per indagare in profondità i demoni di Neil Armstrong lo spedisce sulla Luna, con una catenina fra le mani e il bisogno impellente di seppellire per sempre il dolore di una perdita per la quale non riesce a darsi pace. I presupposti di High Life, se possibile, chiedono un atto di fede ancora maggiore: perché si parte da un futuro prossimo venturo in cui un equipaggio di delinquenti condannati a morte viene inviato in missione nel buco nero più vicino alla Terra, alla ricerca di verità e testimonianze sull’energia di rotazione; perché a guidare il gruppo c’è una sorta di fattucchiera dai capelli corvini, una scienziata al confine della follia ossessionata dall’idea dell’embrione umano perfetto. È una ciurma di cavie, di sacrificabili senza futuro, che deve dare un futuro al resto dell’umanità.
Sull’idea classica degli emarginati che salveranno il mondo, inscalfibile Leitmotiv dell’industria hollywoodiana che permea trasversalmente i generi nel nome di una più facile immedesimazione, Claire Denis innesta un’idea: quando non sembra esserci più nulla per cui vivere, accade di abbandonarsi definitivamente al corpo e ai suoi impulsi. L’epica astrale della regista abbonda di funzioni fisiologiche, coprendo e conquistando la nostra visuale: nell’era spaziale di High Life si allatta e si eiacula, si dà libero sfogo ad una pulsione erotico-sessuale che sotto molti aspetti rimanda e dialoga con la morbosità cronenberghiana. E mentre nei corridoi dell’astronave si uccide, si violenta e si cerca in qualche modo di far nascere la vita, si affaccia un sottotesto lirico e filosofico che contiene moltitudini: la nuova esistenza, seppur creata da scarti della specie umana, sarebbe libera da ogni convenzione terrena, figlia di un grembo materno contenuto all’interno di un altro grembo, la navicella; ma se questo ventre meccanico è riflesso e metafora di ciò che siamo, allora all’umanità non resta che affacciarsi sulla devastante inquietudine della morte. Non c’è traccia di eroismo, di speranza, di nobiltà nei personaggi tratteggiati dalla sceneggiatura (di Claire Denis, Jean-Pol Fargeau e Geoff Cox): c’è solo lo stupore di Monte/Robert Pattinson di fronte alla figlia Willow, ultimo ed estremo baluardo prima che tutto frani e collassi verso l’oblio.
Con la sua struttura narrativa thrilling e anti-cronologica, High Life balza avanti e indietro nel tempo togliendo di continuo allo spettatore la possibilità di un facile inquadramento, di una immediata disamina e interpretazione. Lo stesso vale per lo spazio, gestito virtuosisticamente da Claire Denis in modo non dissimile da come viene vissuto dai due protagonisti sopravvissuti: man mano che Monte e Willow si avvicinano alla loro “destinazione”, diventa per noi sempre più difficile comprendere luoghi, dialoghi, raccordi. Come già accaduto altre volte in passato nella sua filmografia, Denis destruttura il genere di partenza, riconfigurandolo in modo originale e spigoloso: horror (Cannibal Love, 2001), commedia (L’amore secondo Isabelle, 2017) e ora fantascienza diventano strumenti nuovi e scomodi, che fanno il gioco di una autrice che studia la condizione umana e i suoi (dis)equilibri. Un’idea di cinema che rifugge convenzioni, formalismi e omaggi (perché, diciamolo pure, il suo umanesimo spaziale non assomiglia a quello di Kubrick o a quello di Tarkovsky, per citare due riferimenti alti), che non contempla la possibilità del compromesso e getta i semi di una riflessione destinata a lasciare una traccia di sé quasi inconscia e subliminale.