Il principale motivo di interesse nei confronti di Revenge – presentato al Toronto Film Festival 2017 e al Sundance 2018 – non è tanto il fatto di appartenere al sottogenere rape & revenge, quanto quello di essere stato scritto, girato (e montato) da una donna, Coralie Fargeat. Sembra assurdo, ma non lo è: fino ad oggi (anzi, fino a ieri) tutti i film appartenenti al filone sono stati diretti da uomini, dalla loro codifica negli anni ’60 fino ai giorni nostri. E dunque: una violenza perpetrata ai danni di una ragazza da parte di un gruppo di uomini, la “resurrezione” ai limiti dell’assurdo del suddetto soggetto femminile e infine la sua atroce vendetta. Evidentemente, mutando il genere del cine-occhio dietro la macchina da presa, si trasforma anche tutto il resto, indipendentemente dallo stile utilizzato. Eppure l’autrice, nelle sue interviste, storce il naso di fronte a un inquadramento così limitante. Per Coralie Fargeat – al suo primo lungometraggio dopo un corto risalente a più di dieci anni fa, vale la pena ricordarlo – Revenge è prima di ogni altra cosa un film di vendetta, punto. Che a filmare sia una donna o un uomo, un cineasta affermato o un neofita della settima arte, ciò che importa davvero resta il contenuto.
Nel corso delle sue quasi due ore di durata, Revenge cambia spesso pelle, in modo destabilizzante e squisitamente provocatorio. Il primo tranello è l’incipit, in cui il punto di vista maschile (e maschilista) domina la scena. La protagonista Jennifer è l’oggetto del desiderio; un desiderio bruciante, insopprimibile, sia per l’amante Richard che per i due amici cacciatori con cui dovrebbe trascorrere il weekend. L’elemento della caccia è qui fondamentale, perché in breve tempo il predatore diventa preda, e viceversa. A complicare le dinamiche dello sguardo spettatoriale si aggiunge poi il tratteggio della medesima Jennifer: la vorremmo innocente, ingenua, pura. E la vorremmo così perché la dinamica d’exploitation di riferimento ci ha abituato a un mondo bianco o nero, tagliato con l’accetta, che mette al bando per amore di semplificazione qualunque lettura trasversale. Ma Jen innocente non è: esibisce la propria sessualità e la propria natura come meglio crede, spezza le convenzioni (e i perbenismi, e le derive retoriche) comportandosi da essere umano libero che dovrebbe, secondo logica, vivere in un mondo libero. In una società che non dovrebbe essere né patriarcale né matriarcale, ma semplicemente civile.
Exploitation, dicevamo, inteso come sfruttamento intensivo di un genere che accantona i valori artistici per portare in scena elementi forti virati al parossismo e all’eccesso. Tutto, in Revenge, è iperbolizzato, a partire dal titolo: è impossibile credere alla sopravvivenza di Jennifer così come alla sua scintillante vendetta, immersa nei colori iper-saturi della fotografia di Robrecht Heyvaert – già visto all’opera in Le Ardenne – Oltre i confini dell’amore – e nel simbolismo smaccato e reiterato. Come la mela bacata, ad esempio, di cui lentamente ma inesorabilmente i vermi si nutrono fino alla totale consunzione. È giocando con gli stereotipi e con l’anti-realismo che Fargeat provoca il cortocircuito che fa saltare il banco, veicolando sardonicamente un significato che si sgancia anche dal femminismo. Nello scontro finale Richard e Jennifer si inseguono per lunghi e tesi minuti, nel medesimo corridoio circolare, nudi e sanguinanti. Un loop infinito, convenzionale, senza soluzione di continuità. Fino a quando Jen, trasfigurata dal dolore, dalla paura e dalla fatica, non si risolleva quasi rinascendo. Né uomo né donna, ma “corpo” nuovo e trasformato, dissimile da tutto ciò che è stato prima.