BlacKkKlansman è cinema figlio di un pensiero agile e intelligente, la messa in atto e in scena di due programmatiche attività concettuali, spese in favore della rappresentazione cinematografica: la ridicolizzazione propria dell’ironia e il ribaltamento umoristico. L’ultimo lavoro di Spike Lee è infatti un dramma che, pur concentrandosi su nuclei tematici seri e cari all’attivismo del suo autore, si rivela presto come una grande figura retorica che parla il linguaggio della commedia, utilizza le coordinate espressive della farsa e ingaggia le scorciatoie comunicative della satira, triangolando questi linguaggi differenti verso un bersaglio implicito e non dichiarato, marcato stretto ma non messo in mostra: l’odio razziale della società suprematista bianca. Lee opera una scelta sistematica, calando una storia vera (“piccola” ma significativa) in un apparato finzionale ben riconoscibile e in una cornice di genere molto connotata: il risultato è una comicità mainstream densa ma leggera, irrobustita da una didattica strutturata nei dettagli, leggibile trasversalmente e costellata da doppifondi inattesi o evoluzioni acrobatiche.
Il regista intreccia il peso dell’iconografia della blaxploitation e del white trash ante litteram con la lucidità contemplativa dell’esperienza e l’intensità emotiva dell’appartenenza sociale. Dopo numerosi racconti interni alla comunità afroamericana, questo nuovo capitolo ritrova la forza di una questione personale e urgente, dove però la riflessione è meno rabbiosa, più misurata, a favore della perspicacia intellettuale: la realtà sociale in cui si muove l’unico poliziotto di colore di Colorado Springs, schiacciata tra la partecipazione politica delle minoranze etniche e il disprezzo ribollente dei membri del Ku Klux Klan, è utilizzata come spazio teorico in cui confezionare corpose tesi sotterranee sulla natura incendiaria e pandemica del “potere bianco” e su quella memorialistica e rassegnata del “potere nero”; sull’impatto comunicativo e sull’adattabilità trasformativa dei prodotti audiovisivi propagandistici; sul potere delle apparenze, dei fondali formali e delle regole delle istituzioni.
Il film è teso a ridicolizzare gli atteggiamenti dei suprematisti mediante un sarcasmo sottile e prensile, abile a immergersi nella realtà intima di persone orribili per dissotterrare dal rigido afflato della Storia molti elementi ridicoli e parodistici in grado di sbriciolare le già fragili strutture dell’odio e del disprezzo. Ne consegue un ribaltamento umoristico scatenato, che prima sferza il film di elettricità, poi traghetta l’analisi delle oscenità di allora verso la meditazione sulle nefandezze di oggi, fungendo da tono mediatore tra la grammatica dell’ironia e quella della gravità. L’ironia smonta, l’umorismo ricostruisce i pezzi rileggendo con prospettive inedite la struttura complessiva e la rivelazione è servita da una chiusa finale contemporanea: l’odio si trasforma per non cambiare, assume nuove forme e nuove bandiere, si insinua nelle istituzioni, ma è sempre ridicolo e infantile, espressione di un’ignoranza radicata e di una paura altrettanto misera.
BlacKkKlansman usa il linguaggio del cinema mainstream e il tono della commedia per mettere in guardia con più risonanza possibile dal pericolo delle normalizzazioni, e lo fa dilatando il senso di una parentesi stretta in una nota a piè pagina delle cronache storiche. Mosso ancora una volta da un’idea di cinema e da un’idea di mondo, Lee mira al cuore organico del problema e riesce nell’intento di focalizzare le sfumature del presente attraverso una rincorsa all’indietro che prende spinta dal passato. Come nell’inquadratura-firma del regista, quel carrello con soggettiva frontale che parte dal punto di fuga dello schermo e si avvicina al baricentro dell’inquadratura, ricordando il percorso concettuale del film: un lungo gancio visivo che spinge la coscienza sul fondo del ricordo, riportando alla realtà lo sguardo e rilanciando lo sguardo dentro la realtà.