Per il suo nuovo film, Todd Haynes abbandona i temi a lui cari della queernes wave e sceglie di adattare il romanzo La stanza delle meraviglie dello scrittore Brian Selznick (in questa occasione, anche autore della sceneggiatura), per dedicarsi a un racconto d’infanzia, costellato di suggestive scenografie urbane, costumi d’epoca e un fascino tutto particolare per il collezionismo in stile cabinet – e già a questo punto è lecito domandarsi: sono queste le cose che appassionano un bambino? Stati Uniti, 1977: il piccolo Ben, orfano di madre, parte alla ricerca del padre dopo aver perso l’udito a causa di un incidente. Cinquant’anni prima, le avventure di una bambina sordomuta, persa fra i palazzi di New York e le sale di un museo di storia naturale. Haynes sceglie di mettere in scena le vicende che è costretta a subire un’altra minoranza ghettizzata dalla nostra società, filtrando attraverso il suo punto di vista i complessi rapporti che si instaurano fra le persone. L’incomunicabilità che i piccoli protagonisti son costretti a sopportare non tocca soltanto il mondo del linguaggio, ma anche quello dei rapporti familiari e istituzionali.
Le prime immagini ci immergono in un sogno (più precisamente, un incubo) e ci si aspetta dal resto del film (con un titolo simile, fra l’altro) di assistere a un via vai di incredibili visioni, a quelle piccole epifanie che si possono avere la prima volta che si valica la porta, per l’appunto, di un museo di storia naturale. Purtroppo il ritmo non gioca a favore di questa favola: per la prima ora lo spaesamento fra un salto temporale e l’altro è enfatizzato dalla scelta di appannare le immagini della realtà virando da un colore fortemente contrastato (sui toni giallo acido, chissà come mai) a quello di un bianco e nero ricercato e senza sonoro. Ci si chiede se l’intento sia quello di sensibilizzare il pubblico ad una visione sorda della realtà, o se semplicemente si tratta di un ossequio a un altro tempo del cinema. Probabilmente entrambe le cose, anche se la fotografia che richiama lo stile di un’epoca funziona meglio quando ritrae il caos della New York meticcia degli anni ’70, mentre cade in esiti troppo lucidi e raffinati nel dipingere i primi del ‘900 – quel che ci si aspetterebbe da un omaggio a Marlene Dietrich sulle pagine di Vogue. Anche la scelta delle musiche appare più puntuale per un periodo (riecheggia, nella memoria del ragazzino, un 33 giri di Bowie) che per l’altro (se la bambina è sorda, perché musicare anche il suo mondo? Per assecondare la soglia di attenzione del pubblico che non può fare a meno del sonoro?).
Ma c’è ancora un punto da non sottovalutare: l’importanza dei libri di Brian Selznick. Per chi non li conoscesse, i suoi romanzi sono da annoverare fra le migliori produzioni dell’editoria per l’infanzia di questi ultimi anni. La scrittura fluida è alternata a preziose illustrazioni che non si limitano alla semplice traduzione di quanto è già stato detto a parole, ma si inseriscono nel racconto sostituendo interi passaggi di narrazione scritta: un esperimento che ha avuto la sua origine con Hugo Cabret, già a suo tempo portato sullo schermo da Martin Scorsese, e che oggi passa il testimone al regista di Safe e Carol. Le illustrazioni, deliziosamente realizzate in carboncino, riescono a restituire al giovane lettore quella pacatezza e quella prudenza necessarie per stimolare l’immaginazione di chi affonda il naso fra le pagine del libro (qualcosa che ricorda il fascino celato della Storia Infinita, e che per molti versi richiama il film in questione). La stanza delle meraviglie non riesce a onorare la concretezza del disegno fatto a mano, né la peculiare tecnica narrativa sopra citata. Sembra che, per attirare l’attenzione del giovane spettatore, sia necessario ricorrere per forza a sfarzosi effetti speciali e colori sgargianti (questo tanto per Scorsese quanto per Haynes – più moderato, ma alla ricerca di una perfezione che ha del macchinoso). Non crediamo che lo spettacolo debba per forza essere questo. L’immaginazione ha bisogno di uno spazio più autonomo, meno costretto. Spiace un po’, ma – parafrasando il titolo di un altro film del regista – ci auguriamo sinceramente che la fantasia is not all there.