“Volevo essere Max Ophuls e invece sono… Joy D’Amato”. Basterebbe questa frase a rendere immediatamente cult il corto di Bertrdand Mandico presentato fuori concorso alla Semaine de la Critique. In un programma a tema apocalittico, dopo il deludente Third Kind di Yorgos Zois (piatta variante di The Andromeda Strain) e il visionario short d’animazione La chute di Boris Labbé, lisergico viaggio all’inferno, Ultra Pulpe conduce in una dimensione cinefila ultraterrena in cui si mescolano i fluidi corporei di un cinema di genere italiano terminale, colto nella sua estrema propaggine, tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80: quello più denigrato persino dai suoi stessi fan, del postatomico di terz’ordine, dello zombie gradnguignolesco, degli esotico-erotici cannibalici – quello di Aristide Massacesi, in arte Joe D’Amato, per l’appunto (ma il titolo ricorda anche Ultra Flesh di Svetalana, celeberrimo porno fantascientifico del 1980).
Mandico allestisce un visionario melodramma al neon sul set lunare di un film appena concluso: Apocalypse e Joy (Pauline Jacquard e Elina Löwenson), rispettivamente attrice e regista, si apprestano a troncare la propria relazione, e in un ultimo sussulto desiderante si raccontano cinque brevi storie crepuscolari, protagoniste altrettante ragazze (tra le quali anche Lola Creton). Inutile dire che i 37 minuti del film sono quanto di più folgorante visto finora a Cannes, un tripudio di intuizioni e trovate visive che confermano una volta di più il talento del regista di Les Garçons sauvages, capace di reinventare mondi e plasmare immaginari in grado di contenere passato, presente e futuro del cinema, fuori da ogni mero citazionismo. Cocteau, Vigo, Anger, Borowczyck convivono con Fulci, Rollin e Jess Franco in uno scenario necrofilo iper-transgender, tra alieni e gibboni, falli di pietra e creature laviche. Le sollecitazioni audio-visive che investono lo spettatore sono tali e talmente tante da condurlo in una condizione estatica che abbandona a fatica: è una vertigine di film nel film, è il backstage di un film impensabile e folle, è l’aldilà del cinema immaginato dall’unico vero erede di Fassbinder, un autore che non ha paura di sfiorare lo sprofondo e il celestiale, di unire sacro e profano in un amplesso bestiale, di guardare oltre tutto quello che è già stato fatto per rivelare che tutto si può ancora fare e che ogni immagine ancora viva è un’immagine primordiale.
Il cinema di Mandico sanguina d’amore e il suo demone selvaggio si aggirerà ancora a lungo sui nostri schermi. PS su quelli francesi Ultra Pulpe uscirà a breve in una opportuna double-feature com Les îles di Yann Gonzalez, amico e sodale. [Alessandro Stellino]
LE TRE VITE DI ZHAO
Da sempre il cinema di Jia Zhangke trova nel paesaggio l’espressione profonda delle trasformazioni della società cinese: dal parco dei divertimenti di Pechino in The World alla decadenza della regione dello Shanxi in Still Life, la raffinata geografia ricomposta nella sua opera mette in dialogo uomo e paesaggio, lasciando inespresse le emozioni dei volti per dare risalto alle atmosfere restituite dagli scenari. Stupisce che Ash Is Purest White, presentato nella competizione principale di Cannes71, si discosti dal cinema più teorico del regista, per seguire una traccia “privata” del tempo che passa, sostituendo alle vecchie usanze nuove prigioni, abbandonando i complessi industriali per far crescere un’impalpabile terziario. Centro assoluto è il magnifico volto di Zhao Tao, moglie del regista e sua attrice feticcio, che compare in tutta la sua splendente giovinezza in un incipit girato nel 2001. Proprio da questo materiale grezzo (palesemente appartenente a un altro tempo e ad altri formati) prende il via un melodramma in tre atti, che nel raccontare la storia d’amore tra la determinata Quiao (Zhao Tao) e l’ambizioso gangster Bin (Liao Fan) si concentra in maniera inedita sulle successive prese di consapevolezza di una ragazza che diventa donna.
Cresciuta accanto a un padre che non si arrende all’avvento del Capitalismo, Quiao circuisce Bin, all’inizio quasi inconsapevole della condotta dell’uomo, in un gioco di seduzione e speranze che avrà vita breve. Assurto improvvisamente a un ruolo di potere, Bin metterà in chiaro le regole a cui non si può transigere: da quel momento l’unica a mantenere la parola sarà Quiao, trasformandosi da pupa del boss a eroina capace di replicare i gesti dei film d’azione ammirati dal clan (in una scena che dimostra una volta di più quanto il cinema di Jia sappia cambiare improvvisamente tono e ritmo). Da quel momento si assumerà le colpe e sconterà una pena per proteggere il compagno, ritornando alla vita in un viaggio nel cuore di un paese profondamente cambiato. Quiao è, a suo modo, colei che, credendo nei rapporti, sa morire e rinascere, traendo forza dalle sconfitte e maturando una solidità che soltanto lei – di fronte alla fluidità che assume persino il paesaggio nel film – sa far propria. Bin non solo ha abbandonato ogni ideale di gioventù ma, vittima di un potere mancato, dovrà fare i conti con il crollo del proprio corpo e l’impossibilità di accettare una donna più consapevole di lui.
Film collettore di storie inespresse in alcuni dei più fortunati lungometraggi di Jia (la prima parte rimanda a Unknown Pleasures, la seconda ritorna sui sentieri di Still Life, la terza rielabora l’immaginario di A Touch of Sin, mentre il ballo collettivo su YMCA fa venire alla mente quello su Go West in Mountains May Depart), Ash Is Purest White prende le distanze da quanto il regista ha fatto fino a oggi, sperimentando una narrazione più tradizionale, senza abbandonare il sapiente utilizzo del piano sequenza. In questo film di gangster, i toni si allungano nella parte centrale in cui Quiao attraversa la Cina per una resa dei conti che le permetterà di accedere a una nuova vita. Nel dialogo tra i due innamorati in una squallida stanza d’albergo, privo di tagli, è protagonista il tempo: sottratta dai ritmi frenetici della contemporaneità, la coppia si confessa, e nel fissare il proprio stato d’animo si abbandona a una condizione d’estrema vulnerabilità. C’è chi incontrerà le stelle, chi finirà in un abisso, mentre un tuono scandisce le tappe dell’epica quotidiana nel cammino dell’umanità. [Daniela Persico]
REAL FICTION
3 Faces, il nuovo film di Jafar Panahi presentato in concorso al Festival di Cannes, è un omaggio al cinema iraniano della New Wave degni anni Novanta: quello di Kiarostami, sotto la cui ala protettiva lo stesso Panahi aveva debuttato, e di Makhmalbaf. Panahi torna a quel peregrinare in automobile, con macchina da presa interna, nelle stradine sterrate, nei tornanti ripidi di montagna, in mezzo a prati e capre, attraversando quei villaggi rurali popolati di gente semplice e legata tradizioni antiche, ma torna anche a quel cinema teorico che si costruisce in mise en abyme di scatole cinesi, come era stato Lo specchio.
Al centro, una popolare attrice, Behnaz Jafari, riceve il videomessaggio di una ragazza, Marziyeh, aspirante attrice, che documenta il proprio suicidio per impiccagione. Behnaz si rivolge a Panahi, e insieme a lui si dirige in macchina verso il villaggio della giovane. Il film inizia in formato rettangolare, verticale, con la ripresa del presunto suicidio della ragazza. Behnaz sospetta che sia solo un trucco per attirare l’attenzione, ma il regista precisa che “non ci sono stacchi, quindi è vero”. Il pianosequenza come garanzia di autenticità (Panahi spiega che sarebbe possibile raccordare due sequenze nascondendo lo stacco solo con sofisticate e professionali tecnologie digitali, non alla portata di persone comuni). Ma Marziyeh verrà trovata viva, e rimane l’ambiguità su come abbia realizzato quell’artefatto filmico.
Su questo scarto tra realtà e finzione si fonda il gioco del cinema e Panahi mette in relazione due modi diversi di intendere il cinema: da una parte la ragazza che frequenta una scuola di arte drammatica, il cui linguaggio è quello del cellulare, e dall’altra l’attrice famosa e il regista affermato, portavoci di un cinema industriale, che richiede finanziamenti e mezzi. Due sistemi osmotici: se per i registi della Nouvelle Vague iraniana valeva il senso di estrema sobrietà delle riprese, in cerca di un’aderenza diretta alla realtà, adesso uno strumento che conduce al medesimo fine si rivela potenzialmente menzognero, sfuggendo di mano anche al regista che conosce il linguaggio del cinema.
Panahi, interdetto nei suoi diritti ma anche nelle sue attività artistiche, costruisce un film sulla necessità impellente di fare cinema, di filmare, a tutti i livelli. Se un film come Close-up nasceva da una necessità improvvisa riguardante il cinema (il finto regista), 3 Faces, prende avvio da un altro film, un filmato amatoriale che si rivela finzione e diventa motore, a sua volta, di un film più grande, ugualmente reale, ugualmente di finzione. [Giampiero Raganelli]