Il cinema, è pensare con le mani. Godard lo ha già detto molte volte, e lo ribadisce all’inizio di questo vorticoso montaggio che assembla immagini, suoni e parole con la consueta ispirazione associativa e collagistica spinta ben oltre l’illeggibilità.

Ma un centro, questo vortice, ce l’ha. Ed è riconoscibile: la serie di immagini girate in Medio Oriente, attorno alla cui impressionante intensità visiva e soprattutto cromatica Godard si è ritrovato a costruire questo disparato collage.

Si comincia con le cinque dita della mano, cinque capitoli in cui il montaggio ricapitola per scintille sintetiche (à la Histoire(s) du cinéma, per intenderci,”) uno dei capisaldi concettuali dell’ultimo Godard: la guerra perpetua in cui viviamo è dovuta al dominio schiacciante della parola – dunque della legge. A sanare la guerra perpetua può essere solo l’immagine, in quanto redenzione della parola, sospensione della divisione creata dal verbo, ed esposizione del vuoto su cui si fondano linguaggio e legge – in altre parole: dell’anarchia del potere.

Non è un caso che tra i molti fili che si intrecciano in Le livre d’image riusando le immagini altrui, spicca quello che partendo da Salò retrocede fino a Il fiore delle mille e una notte. Perché è proprio in un esotismo palesemente e deliberatamente superficiale, come quello della “trilogia della vita”, che la seconda parte del film rintraccia la via d’uscita dalla guerra perpetua cui ci condanna l’anarchia del potere. Questa sezione, intitolata (da Dumas) Arabie heureuse, si fonda sulla paradossale premessa teologica per cui se da un lato solo la resurrezione, dunque l’immagine, può risolvere il ginepraio cui le religioni del libro hanno condannato l’Occidente, dall’altro questa redenzione non può avvenire dall’interno del cristianesimo, pena la reintroduzione di una cristallizzazione identitaria e mitico-rituale di ritorno. In altre parole: la resurrezione cristiana va cercata necessariamente al di fuori del cristianesimo, nell’impenetrabile alterità che, per noi, è il mondo arabo. Se il linguaggio, come Godard ci ricorda esplicitamente, non è ciò attraverso cui parliamo, ma l’altro che parla, o meglio noi che parliamo a noi stessi attraverso l’altro, redimere il linguaggio vuol dire trattare l’alterità a prescindere dal proprio essere condizione di possibilità del linguaggio, ovvero in funzione antiespressiva: una pura superficie che non dice nulla tranne che se stessa – come (di nuovo) il pasoliniano linguaggio della realtà – e che si propone come il luogo dell’immediata coincidenza tra interno ed esterno.

Si tratta, peraltro, di una traiettoria tutt’altro che inedita. È alla scommessa di Gauguin di fare dell’impenetrabilità dell’Altro una tavolozza a cielo aperto, che i pittori fauve dovettero gran parte della loro estetica. E se già in Adieu au langage Godard usava il digitale in senso palesemente fauve, in Livre d’image si spinge ancora oltre: non solo nelle splendide, nitide eppure ipersaturate immagini girate in Medio Oriente, in quei colori violenti che redimono la violenza dell’atto della rappresentazione esponendola anziché celandola nella quiete che la rappresentazione stessa in quanto tale è (anche questo, Godard non manca di enunciarlo apertamente); ma anche nelle immagini di film altrui (e propri) che riusa esasperando la “sporcizia” del video, o portando all’estremo la luminosità fino a rendere l’immagine una campitura indeterminata e uniforme incrinata dall’emergere di una manciata di elementi che finiscono per costituire l’immagine stessa.

Insomma: anche distorcendo le immagini altrui (e giocando continuamente con i cambi di formato, così, con l’innocenza dei bambini, anche quella esplicitamente rivendicata dal film), Godard si conferma innanzitutto pittore. E non è infatti nelle ruminazioni concettuali che va cercato il cuore della sua operazione: esse sono solo uno svuotare il campo del pensiero da qualsiasi ipotesi che non sia il continuo salto da intuizione sintetica a intuizione sintetica, eliminando il tempo (dunque la parola) a favore dell’istante fulmineo, dunque dello spazio (dunque l’immagine). No: il punto è, più semplicemente, toccare con mano (con le dita, in senso letterale, digitalmente) la superficie del visibile, soprattutto quella più impenetrabile perché appartenente a un’alterità radicale, fino a collocare le sue risonanze emotive in un luogo che non è né dentro, né fuori. Quel luogo è l’immagine.

Lo sapeva Rossellini, anche qui stracitato. E se quelli dell’Isis non sanno che le loro esecuzioni sono identiche a quelle naziste del sesto episodio di Paisà, bisognerà sottrarre nel loro stesso campo, più ancora del potere, la dimensione al di là del potere che l’immagine è. Lo ha fatto, in tempi recenti, l’Abderramahne Sissako di Timbuktu (anche lui citato), lo ha fatto in tempi meno recenti lo stracitato Youssef Chahine, e lo ha immaginato, fra gli altri, lo scrittore egiziano francofono Albert Cossery in Une ambition dans le desert, romanzo di cui Godard qui legge ampissimi stralci e che davvero, in nuce, contiene già quasi tutto il progetto che finirà per essere Le livre d’image. [Marco Grosoli]

CANNES 71: IL SOGNO DI DIAMANTINO

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