Il loop è da sempre la traccia visiva che si ricollega al fallimento di un percorso, eroico o antieroico che sia, ed è con questo stilema che Tommaso Perfetti decide di iniziare e concludere un frammento della vita di Vincenzo, ex detenuto in viaggio per tentare di incontrare la figlia che non vede da anni.
Il fallimento riguarda proprio il miraggio di un ricongiungimento affettivo e ammanta tutto Yvonnes, che scorre intimamente su Vincenzo e oscilla senza sosta tra aspettativa e realtà. La messinscena esclude tutto il resto, la camera a mano segue sempre il suo protagonista, lasciando che sia non solo il mondo esterno a dover essere immaginato, grazie a un importante lavoro sul suono che ne suggerisce comunque i contorni, ma anche e soprattutto il passato e il futuro dell’uomo, perso nelle sue vane speranze di redenzione. Lo spettatore è da subito messo nella condizione di indagare sul vissuto di Vincenzo, che nel suo approcciarsi al reale dimostra una calma precaria, risacca di un passato pieno di dolore e rabbia.
Grazie a questa fragilità il comparto visivo riesce a conformarsi al film e coincide quasi totalmente con il protagonista che sta raccontando, riuscendo nella delicata operazione di narrare un persona e non la sua storia. La parabola di finzione e di effettiva messinscena riescono ad acuire questa impressione: ne è un esempio la sequenza girata in discoteca, nella quale la luce scolpita sul corpo di Vincenzo lo abbraccia e subito dopo lo abbandona in una netta oscurità. L’annichilimento del percorso evolutivo non solo ci parla di un isolamento e dell’impossibilità di un uomo di poter rimediare ai suoi errori all’interno della società contemporanea, ma testimonia anche l’impulso della narrazione di ritirarsi a favore di quel ritratto in movimento che il documentario si prefigge di essere. Ecco che quindi il nome della figlia Yvonnes si depersonalizza e diventa una meta radicalmente utopica, rappresentando socialmente la negazione di una catarsi e intimamente la scelta di entrare nell’animo di Vincenzo per non uscirne più.
Questo regalarsi completamente alla realtà che si vuole rappresentare rende il cinema, inteso come estensione ontologica di quest’ultima, qualcosa di inscindibile dal soggetto al di là dell’obbiettivo, che di rimando donerà tutto se stesso per il semplice fatto che non avvertirà più quella distanza tra oggetto e soggetto artistico. Ecco perché l’aspetto che infine risulta più significativo non è tanto il trovare le ragioni dei comportamenti di Vincenzo, siano essi passati o futuri, ma il tentare di ricercarli durante la visione del film. L’idea stessa di Yvonnes non è infatti la destinazione, ma il viaggio, fisico e spirituale. Paradossalmente quindi non è il ritrovarsi con la figlia a dare speranza e affermazione a suo padre, ma piuttosto il percorso compiuto durante la realizzazione del film ad aiutarlo a tirar fuori se stesso, per donarsi a chi vive in un mondo in cui i suoi problemi sono assolutamente sconosciuti.
Nel loop conclusivo quindi, la fine diventa l’inizio, strutturalmente e intimamente, ma la fine della speranza che qualcosa si realizzi può dare inizio a un’altra speranza, proprio perché nel mezzo di un tumulto si è riusciti a smuovere la vita, a darle movimento, un movimento che ha il diritto di chiamarsi cinema. Un cinema che diventa anche uno strumento di redenzione, in un film militante e coraggioso, prodotto e realizzato in una Milano che rimane sullo sfondo ma fa sentire tutto un peso sulla vita di chi ne è prigioniero. Volente o nolente l’ambientazione si trasforma e, pur nella sua invisibilità, soffoca prima, e alimenta poi, le anime che la popolano. Yvonnes è un’altra conferma di un sottobosco cinematografico italiano vivo e forte, che ha trovato nel genere documentaristico un suo nuovo e piccolo realismo, che in questo caso è valso al film un importante riconoscimento a Vision du Réel nel 2017.