Frutto di oltre cinque anni di lavoro, La strada dei Samouni, presentato ieri alla Quinzaine des réalizateurs, segna il ritorno del documentarista Stefano Savona nella Striscia di Gaza, già al centro di Piombo fuso che l’aveva rivelato al Festival di Locarno nel 2009. Opera in grado di unire l’immediatezza del reportage di trincea all’intento testimoniale, era stata realizzata sulla scorta del desiderio di documentare “in diretta” la guerra, pubblicando in rete estratti quotidiani che facessero giustizia del racconto lacunoso offerto dalle reti TV; e “Piombo fuso” era il nome dato dall’esercito israeliano all’operazione militare svoltasi nella Striscia tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009. Proprio in occasione di quell’incursione persero la vita ben 29 membri della famiglia Samouni, contadini finiti loro malgrado per diventare martiri.
A condurre la narrazione è la piccola Amal, scampata miracolosamente all’eccidio e ancora segnata dalla strage, nel corpo e nello spirito. I ricordi affiorano poco alla volta, per strappi, dettagli, come quello relativo alla presenza di un sicomoro sotto il quale erano soliti riunirsi il padre e i suoi fratelli, ora scomparsi. E sulla scorta delle memorie il film cambia pelle, grazie alle animazioni visionarie firmate da Simone Massi: tessiture chiaroscurali dalla trama fitta, graffi di bianco su uno sfondo nero pece che riportano al tempo presente i trascorsi della bambina e dei suoi familiari, squarci di infanzia marcati dallo sfrecciare assordante dei jet e dal vibrare delle pale degli elicotteri. Grazie alla maestria del disegnatore, coadiuvata da un notevole lavoro sul sonoro, la vicenda assume una dimensione immaginifica che stratifica in senso drammatico una vicenda di cui sarebbe altrimenti difficile mostrare gli esiti senza ricorrere al ricatto emotivo.
Ma proprio le parti animate, che caratterizzano tutta la parte centrale per poi lasciare nuovamente spazio alla materia documentaria in quella finale, rischiano di fagocitare il resto del film: spalancare la dimensione del racconto a ciò che non può essere mostrato è un gesto di grande ostinazione e allo stesso tempo una concessione, una sorta di “resa” al potere suggestivo della (ri)creazione degli eventi. Savona intraprende questa strada con coraggio e decisione, e correda il proprio materiale di “immagini mancanti”, come quelle dei droni che riprendono dall’alto l’abitazione dei Samouni prima, durante e dopo l’attacco che li ha sterminati. Inquadrature fisse e granulose, nelle quali gli umani si muovono come minuscoli spettri lattiginosi e le esplosioni si configurano come vampate al calor bianco. Sono apici di tensione, ma anche in questo caso si tratta di ricostruzioni “veritiere”, operate sulla base delle informazioni a disposizione dell’autore: un tentativo, stavolta, di impossessarsi delle immagini del potere attraverso la libertà espressiva, rivendicata anche, e più che mai, nel contesto del cinema del reale. [Alessandro Stellino]
PAROLA DI LOU
Si è già parlato della dichiarata linea politica del Festival, che proprio nel regista russo Kirill Serebrennikov ha individuato una voce scomoda: costretto agli arresti domiciliari dallo scorso agosto, l’autore (un’autorità in campo teatrale nel proprio Paese) non ha potuto raggiungere Cannes per la presentazione di Leto (Summer), appassionata ricostruzione dello spirito punk negli anni Ottanta in un’Unione Sovietica sul ciglio dello sprofondo.
Partendo da figure realmente esistite, come la star sovietica Viktor Tsoi (fatta risorgere attraverso l’impressionante somiglianza del giovane attore che lo interpreta, Teo Yoo), il regista punta a restituire il sogno di una generazione, cresciuta all’oscuro della scena musicale internazionale e recuperata attraverso registrazioni illegali. Il desiderio di diffondere una nuova musica, uscendo dal controllo dello Stato, è ciò che muove i due protagonisti, l’affermato Mike e il giovane Viktor (oltre all’attrazione di entrambi per l’affascinante Natasha). Ma il regista rifugge la narrazione canonica da biopic concentrando gli avvenimenti in una stagione e puntando l’attenzione sullo spazio che la musica occupa nell’immaginario dei protagonisti. Se le canzoni degli Aquarium e di Tsoi sono usate diegeticamente, il resto della colonna sonora acquista un valore sensoriale: si affastellano i cult di un’epoca, dai T. Rex a Lou Reed, da Iggy Pop a David Bowie, canzoni emblematiche che hanno saputo esprimere i sentimenti repressi del proprio tempo. Come in un musical, i conflitti politici, sentimentali e individuali sono trasfigurati e sciolti in scene vagamente oniriche in cui animazioni elementari distorcono la realtà mostrandone un’altra faccia, quella ideale espressa in ciascuna hit.
E proprio a questa dimensione di puro desiderio aspira il film, che insegue nella regia ariosa (con una camera in costante movimento) la sensazione di non riuscire mai a cogliere l’attimo, ma di fermarsi lontano a guardare gli amici che danzano tra le onde del mare o a baciare in punta di labbra una donna che non sarà mai la tua compagna. Distante dall’autoritarismo che segnava il precedente Parola di Dio, Leto sembra esserne il versante liberatorio, in cui le pulsioni intime trovano la loro dimensione, se non nella vita almeno nell’arte. Esemplare la scena del tram sulle note di The Passenger, in cui Natasha e Viktor, assolvendo a un desiderio concreto di Mike (la tazzina di caffè), iniziano un corteggiamento interrotto dagli altri passeggeri e completato da un viaggio sul tetto della vettura.
In continuità con un cinema che punta a raccontare cosa è mancato alla generazione cresciuta durante il crollo dell’URSS, Leto finisce per assumere toni elegiaci nei confronti di un gruppo di personaggi che rappresentano più la forza della giovinezza che non il coraggio dell’arte. E forse proprio in questa mancata messa a fuoco, sta il limite più evidente del film di Serebrennikov. [Daniela Persico]