Il tempo è l’ossessione attorno cui ruota il cinema, tanto leggero nelle apparenze quanto monumentale nei risultati, del regista tedesco Philip Gröning. Ogni sua opera consiste nella messa a punto di un campo d’azione, a volte un vero e proprio palcoscenico, entro cui far evolvere la relazione tra pochi attori, figurazioni delle più profonde pulsioni umane. Nell’adesione realista di Sommer (1988), suo primo film incentrato sul rapporto tra un padre e il proprio bambino autistico, o nell’astrazione concettuale di Die Terroristen! (1992), opera seconda sospesa nell’attesa del gesto terroristico, la percezione del tempo è messa a tema, attraverso la progressiva riduzione di altri elementi (il decor è sempre essenziale e mai invasivo, i movimenti di macchina calibrati), per lasciare affiorare una tensione misteriosa, attraverso la quale l’uomo si pone in rapporto con l’infinito. Non a caso il suo primo film ad assumere la misura monstre di tre ore è Il grande silenzio (2005), documentario che ambientandosi all’interno di un monastero cistercense prende di petto questa “sfida” tra l’uomo e la propria temporalità. Opera spartiacque, da cui Gröning esce generando due film estremamente lucidi nel portare avanti la propria ricerca. Da una parte il chirurgico La moglie del poliziotto (2013), storia di una violenza domestica che sembra annientare il tempo per far risaltare la fissità della crudeltà, dall’altra My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot (2018), presentato quest’anno in concorso alla Berlinale, che si propone di far vivere appieno la durata della narrazione, attuando alla lettera le lezioni filosofiche e la loro rielaborazione cinematografica nel racconto metaforico di una fase di passaggio, tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta, vissuta attraverso i turbamenti di una coppia di gemelli, Robert e Elena.
I due hanno 48 ore per prepararsi all’orale dell’esame di fine liceo, Elena ha scelto un’esposizione in filosofia, ma è il fratello ad esserne ossessionato tanto da discettare senza sosta sul concetto di tempo tra Sant’Agostino, Brentano e Heidegger. Lei è più interessata a scoprire se Robert ha perso la verginità con la fidanzata, e – a sua volta – non vuole restare indietro in questo passaggio d’età, tanto da lanciargli una scommessa: andrà a letto con un uomo entro il fine settimana, raccogliendo la massima filosofica secondo cui il tempo si avverte solo nel momento in cui si desidera o si teme. Dall’atto della pronuncia della scommessa, il film si divide in due tempi antitetici e speculari: la prima parte sospesa, impalpabile e sfuggente è il tempo del desiderio per Elena, i due corpi acerbi dei ragazzi si distendono sui campi di grano, inquieti ripassano le loro lezioni, bevendo birra e mangiando schifezze, lasciando nuovi segni tra le spighe e addentrandosi nella selva che si apre a bagni purificatori. Nella tensione crescente tra i due (il tempo dell’attesa di Elena è anche il tempo del timore di Robert), il regista lascia spazio a momenti di suggestiva tenerezza (Elena fa ascoltare a una cavalletta la sua canzone preferita), che destabilizzano la programmaticità sottesa a ogni sua opera. Infatti i riferimenti al cinema di Terrence Malick, più volte apparsi sulla stampa dopo la visione festivaliera, non potrebbero essere più fuorvianti, nonostante le spighe e le citazioni di Heidegger: quanto gli ultimi film dell’autore texano sono liberi e brillano della loro ineffabile precarietà, quanto il fascino assolutista di Gröning è soltanto ammantato dall’abbagliante superficie immacolata di La moglie del poliziotto o dai fluttuanti campi dorati di My Brother’s Name is Robert.
Dietro il luccichio e l’apparente casualità delle azioni, si cela una controllatissima crescita dell’impulso all’azione. La seconda parte del film infatti assume un andamento opposto: sincopato, letale ed efferato, è il tempo della paura, in cui tutto si consuma, il corpo, il gesto, il possibile superamento dell’io e del tu, in un tripudio violento d’azioni. Nella stazione di servizio, attorno alla quale i due fratelli continuano a giocare, si manifesta il concretizzarsi di un’azione, che condurrà alle più irreparabili conseguenze, e alla fine della coesistenza tra due spazialità differenti del tempo. Fuori dalla dicotomia, quando alla fine Elena ha la possibilità di riassumere la storia, nell’esposizione che è chiamata a fare per superare una soglia sociale della sua vita, improvvisamente diventa emblematico che noi stessi, come spettatori, abbiamo caricato quell’astratto teatro del mondo (il campo, il lago, la stazione di benzina) di un valore che non si riduce alla mera narrazione del film (alla fine non è forse altro che un Bonnie & Clyde filosofico?), ma al passaggio fugace e talvolta illecito dei nostri desideri, catturati dagli spazi aperti di un cinema ondeggiante tra l’accuratezza dell’entomologo (non a caso il terzo protagonista è una cavalletta) e l’imprevedibilità dello sperimentatore (che cosa è questo film se non le prove reiterate di uno spettacolo teatrale con due giovani attori?). Così quando nel finale gli schermi neri si alternano al teatro della storia, la riflessione scivola dal raccontato al racconto, in una vertigine degna di quest’autore scomodo ma fondamentale.