Impossibile, per chiunque si occupi di cinema oggi, non fare i conti la ricchezza mutevole e sempre più sorprendente della forma documentaria. E se la distribuzione italiana, i circuiti più commerciali e gli Oscar continuano a privilegiare opere a forte connotazione sociale, spesso d’impostazione biografica e di derivazione videogiornalistica, la quantità di film che i festival di settore propongono al proprio pubblico rivela tutt’altro scenario. Ecco perché manifestazioni come Visions du Réel, FID Marseille, DocLisboa, Jihlava, CPH:DOX, sono ormai laboratori imprescindibili tanto per chi si misura creativamente con l’arte documentaria quanto per chi è interessato a studiarla. Centinaia e centinaia di film che in ogni singola rassegna testimoniano della fertilità di una produzione inesauribile, fuori dalle ristrettezze ideative e produttive di tanto cinema di finzione. Finzione, peraltro, verso le cui costruzioni il documentario tende sempre di più, come ha dimostrato l’ultima edizione del Cinéma du Réel, la prima sotto l’egida della nuova direttrice Andréa Picard.
Per una decina di giorni, nelle sale del Pompidou, il festival ha proposto una riflessione intorno all’ontologia stessa del termine “reale” e delle sue possibilità di messa in scena cinematografica. Il volume celebrativo edito in occasione dei 40 anni della manifestazione, Qu’est-ce que le réel?/What Is real?, con interventi di oltre 40 cineasti sul tema, è un corollario ideale alla visione dei film proposti. Éric Baudelaire, James Benning, Charles Burnett, Bruno Dumont, John Gianvito, Eugène Green, Nicolas Klotz, Pietro Marcello, Raya Martin, Roberto Minervini, Nicolas Rey, Claire Simon, Deborah Stratman, Apichatpong Weerasethakul sono solo alcuni degli autori coinvolti in una pubblicazione suggestiva per impaginazione, struttura e contenuto: ciascuno risponde a modo suo alla domanda posta dal titolo, a volte con riflessioni approfondite, altre solo con immagini o fotogrammi, in alcuni casi coniugando entrambe. Dal coro di voci si solleva l’urgenza di realizzare un cinema personale e politico, in grado di rivendicare l’aderenza alla realtà attraverso la sua rielaborazione artistica: più che un cinema del reale un cinema del possibile, come sottolinea il critico Cyril Neyrat. O forse un cinema dell’irreale, come indica la nuova sezione del Festival creata per l’occasione: Ir/réel.
È lì che il programma si è spalancato in maniera più esplicita alle contaminazioni e alle sperimentazioni, per mezzo di una quindicina di opere in grado di spaziare dalle pratiche installative a quelle del videosaggio, da The Rare Event di Ben Rivers e Ben Russell allo strepitoso The Green Fog di Guy Maddin, Evan e Galen Johnson, e con evidenti sconfinamenti in ambito finzionale (En attendant les barbares di Eugène Green, Extincão di Salomé Lamas, L’Héroïque lande/La Frontière brûle di Klotz e Perceval): poche anteprime assolute ma un vibrante spaccato di cinema aperto e tendente al movimento eccentrico rispetto alle convenzioni del documentario. Intenzione manifesta anche nel concorso dei corti, dove i selezionatori si sono presi ampie libertà nel proporre opere di pura finzione (Monelle di Diego Marcon) o frammenti di materia grezza proveniente dal mare magnum del web (The White Elephant di Shuruq Harb, programmato in accoppiata a Roman national di Grégoire Bell, realizzato a partire da dirette realizzate da adolescenti e giovani francesi sul social Periscope).
C’è chi ha evidenziato come la competizione internazionale non si sia fatta troppi problemi a “ripescare” film appena transitati dalla Berlinale (Fotbal infinit di Porumboiu, Waldheims Walzer di Ruth Beckermann e Zentralflughafen – THF di Karim Aïnouz; altri ancora se ne sono visti in quella nazionale, da Djimilia di Aminatou Echard a L’empire de la perfection di Julien Faraut – tutti di altissimo livello, sia detto), ma nel complesso il programma ha messo in mostra uno sguardo eclettico e una propensione alla sperimentazione di cui forse in passato si è sentita un po’ la mancanza. Spesso più attenta al contenuto che alla forma, la programmazione del Réel dispiegava un panorama di opere capaci di restituire al meglio la propensione osservativa che ne caratterizzava l’approccio delle origini, quelle legate al suo fondatore Jean Rouch (che poi diede alla manifestazione il suo nome attuale, sostituendolo al precedente “Rencontres internationales du cinéma direct”) ma trascurando l’evolvere vertiginoso delle forme linguistiche cui abbiamo assistito negli ultimi tempi. Picard, da tempo responsabile della programmazione di Wavelengths, la sezione più sperimentale del Festival di Toronto, ha evidentemente operato nel senso di una nuova stratificazione di formati e dispositivi, per rendere il più possibile giustizia alla natura sfuggente del fronte documentario.
E, come in ogni festival che si rispetti, si vorrebbe avere il dono dell’ubiquità per poter seguire, insieme alle competizioni anche gli omaggi e le retrospettive, quest’anno dedicate a Shinsuke Ogawa e a tracciare “un altro ‘68” grazie alla ricercatissima programmazione di Federico Rossin, volta a tracciare un percorso fatto di “eccezioni rispetto al sistema di segni prevalente – di ieri e di oggi – e che persiste quale lezione conclusiva sull’etica cinematografica, l’invenzione stilistica e l’immaginazione iconografica”. Due rassegne dal forte impianto politico cui va aggiunta, ancora all’insegna della resistenza, l’ampio spotlight dedicato al lavoro dell’inglese Tacita Dean, paladina dell’analogico.
Un’edizione di passaggio, positivamente transitoria, promettente, che rivendica la propria indole anche sul fronte dei premi, tributati a un maestro riconosciuto come James Benning (L. Cohen) e alla giovanissima e talentuosa portoghese Leonor Teles. Classe 1992, abilissima direttrice della fotografia (Verao Danado di Pedro Cabeleira) e già vincitrice di un Orso d’oro a Berlino con il corto Balada de un Batráquio: con il suo Terra franca, ritratto sommesso e poetico di un pescatore solitario, si conferma cineasta da tenere d’occhio, e sulla quale torneremo a breve su queste stesse pagine.