I Racconti dell’Orso è un film sul sogno di una bambina, è un film-sogno, è un film sul sogno di fare un film. Il primo lungometraggio di Samuele Sestieri e Olmo Amato, presentato nella curiosità generale al Torino Film Festival del 2016, selezionato nel 2017 a Rotterdam e presto destinato ad altre tappe internazionali, nasce dal viaggio che i due giovani autori, forti dell’idea di girare un corto con attrezzature audiovisive digitali di ormai ampia accessibilità, hanno intrapreso in Norvegia e Finlandia nell’estate di qualche anno fa. Parliamo di due ragazzi che, scevri da battesimi produttivi nazionalpopolari e in totale autonomia, sono finiti lontano da casa per cimentarsi nel racconto e nella regia, varcando le soglie dell’inquadratura per farsene essi stessi interpreti in prima persona.
Il fascino dell’esperienza on the road, a contatto profondo con la natura scandinava, i suoi paesaggi quasi completamente estranei alla presenza umana, la sua radicalità, emerge con chiarezza dal montaggio, di certo non pacifico, del lavoro finito. I Racconti dell’Orso, tuttavia, non è esattamente un film di viaggio, ma piuttosto un viaggio, fisico e tangibile, dentro l’idea di un film. Precisiamo: l’idea di un film, non semplicemente (!) un’idea di cinema. Inutile oggi, e forse perfino conformista, cercare di allineare il lavoro di questi due intraprendenti spiriti entro le cornici di tale o talaltra lettura critica. Probabilmente l’atto stesso di verbalizzare le logiche del film, a voce o per iscritto, è già un mezzo tradimento, utile al massimo a ravvivare il passaparola per un’esile produzione completata sul web attraverso crowdfunding. L’impressione è che il racconto abbozzato di due creature aliene e cartoonesche, partorite, s’immagina, dallo stato di incoscienza di una bambina addormentata in automobile, che non comunicano attraverso timbri o lessici umani, piuttosto per fonemi astratti e infantili, si aggrappi e lotti con tutte le forze disponibili per spostare l’attenzione dello spettatore su un altro versante, opposto al primato della parola.
Ora, Sestieri e Amato probabilmente non sono attori formati, ma con molta sottigliezza hanno saputo intuire il potenziale performativo di questi personaggi senza capo né coda: figure bidimensionali e mai perfettamente integrate alle foreste scandinave dentro cui si trovano a vagare, l’omino rosso e il monaco meccanico generano con la loro azione, specialmente quando a vuoto, un disegno di movimento discontinuo ed eccentrico, che il corpo degli interpreti, forse in virtù dell’assunto onirico dell’intera vicenda, accetta di attraversare, esplorare, declinare senza riserve. Se la saturazione dei colori è parte integrante della trasfigurazione di un mondo, l’uso della dissolvenza incrociata, molto frequente e spesso riuscita, è la cifra metalinguistica di un’immersione totale dentro un laboratorio di immagini, gesti e segni che, da sola, basterebbe a interrogare l’impersonalità di tanto giovane cinema italiano.
Dopo un incipit che, grazie alla disponibilità verso il dato reale, dissolve e sfarina la consistenza del digitale – la materia stessa della creazione – entro il primo piano di una bambina dormiente, il flusso immaginativo che guida la vicenda, suddivisa per capitoli fantasiosi e depistanti, raccoglie prima le suggestioni della fuga, poi della contemplazione, infine dell’umanizzazione dei protagonisti. Fuggire, contemplare, lasciarsi umanizzare: ma da cosa? Probabilmente dall’ipotesi stessa di fare un film, di abitarlo. Di essere film. La naïveté delle due buffe maschere e del loro corso non è mai posa o reale disimpegno: è la trovata, o la condizione molto intima, per affrontare, nella forma dell’esilio, la prova iniziatica del cinema. In questo senso ogni giudizio di merito o di gusto diviene accessorio: conta la disponibilità a partecipare, l’adesione al progetto. In molti hanno ribadito l’imperativo al gioco dei personaggi, sotteso da uno dei pochi sottotitoli che, quasi a prendere in giro lo spettatore, traducono i gorgheggi spiazzanti delle due figure. Se l’italiano non mente, l’inglese potrebbe aiutare a riconnettersi alla dimensione più implicita del progetto. “So… What we do now?”, chiede uno. L’altro risponde: “Let’s play”. Ma play, lo sappiamo, non rimanda soltanto al ludus. Al contrario, richiama gli autori a fare la propria parte, a non tirarsene indietro.
Con il risveglio della bambina, anche questa commedia onirica incompiuta sfuma ma, gioco o meno che fosse, l’omino rosso e il monaco meccanico sembrano non cessare la propria esistenza. Perduti in qualche rifugio al nord del mondo, dialogano ai lati opposti di un tavolino. Non solo suggeriscono una relazione che prima non c’era, ma appaiono umani, in una scena che, per paradosso, sembrerebbe restituire allo spettatore un frammento di backstage: una disinvoltura nei gesti, un sodalizio al di là della maschera, una calo improvviso di finzione che finora erano stati celati o taciuti. In fondo sapevamo che queste due sagome surreali non esistevano davvero. Per un’ora abbiamo incontrato e conosciuto Olmo e Samuele, Samuele e Olmo, in relazione incessante con la loro idea. Con i loro riferimenti e le loro provocazioni visive (da Takahata a Miyazaki, da Jurij Norštejn ai Teletubbies in versione slapstick), con le loro scene abbozzate per un cortometraggio divenuto lungo ma, più di tutto, con il loro desiderio di varcare una soglia in prima persona.