Un anno dopo il brutale omicidio della figlia Angela, con annesso stupro e successivo rogo del cadavere, Mildred Hayes (Frances McDormand) non ha ancora avuto un colpevole dalla polizia locale e per ridestare l’attenzione affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari fuori Ebbing, Missouri: “Raped While Dying” recita il primo; “But still no arrests” il secondo; “How come, chief Willoughby?”, il terzo, direttamente rivolto allo sceriffo che ha il volto e lo sguardo di Woody Harrelson. Bastano queste parole nette a riaprire le ferite profonde di una comunità statica e sonnolenta, che vive di rimozioni: rifiuta il progresso, non vede l’integrazione e la multiculturalità, sotterra le proprie colpe e si scuote scompostamente dal proprio torpore solo quando il rimosso torna inesorabilmente a galla.
Nel cuore del cosiddetto Midwest, centro di quella crisi che da da tempo scuote gli States ma di cui la maggior parte di noi si è accorta solo l’8 Novembre scorso, Martin McDonagh cala la storia di una madre in cerca di giustizia inquadrando con straordinaria leggiadria di scrittura gli enormi, insolvibili grumi della provincia americana. Il regista britannico mantiene la costante del suo cinema, già perno di In Bruges e 7 piscopatici: l’inserimento di una commedia nera all’interno della tragedia e l’alternanza continua e repentina tra i due registri, soprattutto attraverso la forza dei dialoghi. Più che nei due precedenti, il risultato stavolta è un autentico rollercoaster che va veloce tra generi e mood diversi, dal neo-noir al western, dal surreale al dramma, schivando ogni forma di politically correct. Un film che si tiene miracolosamente in equilibrio pur rinunciando a qualsiasi forma di baricentro: non ci sono atti, capitoli o sezioni, i fatti si susseguono in velocità, i personaggi vanno e vengono, all’insegna della più totale libertà drammaturgica.
È proprio in questa disinvoltura perfettamente calibrata che risiede il più sottile risvolto politico di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri – tra i migliori titoli dell’ultimo concorso veneziano: nelle fulminanti e oltraggiose battute che i personaggi si scambiano, senza prendersi mai troppo sul serio e senza evocare direttamente temi alti, al contrario nascondendoli negli stilemi di genere, quello che McDonagh costruisce con la sua scrittura e in cui una madre disperata e uno sceriffo malato finiscono per confrontarsi è un mondo crudele, ingiusto, diviso tra zotici, razzisti, omofobi e traditori, esseri umani incapaci di cambiare perché inguaribilmente malati di accidia. Ebbing diventa quindi, senza che il racconto risulti nemmeno per un secondo didascalico, un piccolo paradigma di che cosa sono gli Stati Uniti trumpiani, un quadro cupo in cui inaspettatamente McDonagh apre un lieve, straordinario spiraglio: il segregazionista edipico agente Dixon (interpretato da un eccezionale Sam Rockwell, che spicca in un cast strepitoso) è l’unico personaggio che evolva in questo universo pigramente statico, approdando dalla sua balordaggine a un inaspettato, reale senso di giustizia, nel bellissimo e delicato finale on the road di questo piccolo gioiello.