Due elementi saltano subito agli occhi, a una prima visione di Wonder Wheel: l’intensa interpretazione di Kate Winslet e il gran lavoro del direttore della fotografia Vittorio Storaro, che collabora per la seconda volta con Allen, dopo Café Society. Allen sembra costruire Wonder Wheel, a livello di messa in scena e messa in quadro, proprio su questi due perni. A Kate Winslet viene chiesto di esprimere tutto il suo talento per indurre lo spettatore a empatizzare con un personaggio decisamente complesso come Ginny, ex attrice e cameriera insoddisfatta, sposata con un uomo che non ama. Tra monologhi e primi piani, trasformazioni fisiche e mutamenti d’umore, la Ginny di Winslet è una donna a tutto tondo, che non si dimentica facilmente. Un’antieroina imparentata sia con la Blanche di Un tram che si chiama Desiderio, sia con la Jasmine di Blue Jasmine.
Al digitale di Storaro, invece, va il compito di giocare simbolicamente con la luce e i colori, per ottenere un effetto antinaturalistico, teatrale, ed evidenziare le personalità diverse dei protagonisti, le loro emozioni che cambiano nel bel mezzo di una scena trasformando anche le fonti luminose. Così, nel rispetto della fisiologia del colore teorizzata in precedenza da Storaro stesso, a Ginny, donna dalla bellezza un po’ tramontata, che rimpiange un passato idealizzato, vengono associate le tonalità rossastre e arancioni. Mentre la sua più giovane rivale in amore, la figliastra Carolina (una convincente Juno Temple), proiettata nel futuro, s’illumina sovente di fasci azzurrini, in tutto il suo candore, come in un crepuscolo prodigo di promesse.
Il film è ambientato prevalentemente a Coney Island, nella solita New York di fantasia che coincide con il mondo immaginario di Allen, qui in parte nutrito di ricordi adolescenziali dei lontani anni Cinquanta, in cui al cinema si poteva vedere Winchester ’73 e le donne vestivano abiti che ne valorizzavano le curve. Il luna park di Coney Island, in realtà, ricostruito grazie agli effetti visivi della Brainstorm Digital, era già chiuso dagli anni Quaranta, ma appunto Allen, soprattutto nei film “in costume”, si concede volentieri piccole licenze che favoriscono il processo di stilizzazione, permettendo alla libertà creativa del regista di dare forma (e sostanza) al suo ricchissimo universo mentale, alla cinefilia che ricostruisce un decennio per come il cinema dell’epoca l’ha rappresentato e concede ai personaggi di vivere in un mondo finzionale perfettamente cucito su di loro.
Wonder Wheel, dunque, con l’esuberanza formale dei musical degli anni Cinquanta, ma con la densità psicologica dei drammi di Kazan, si serve non solo dei colori di luci e costumi, ma anche delle splendide scenografie di Santo Loquasto, per far sì che tutte le componenti dell’immagine riflettano i sentimenti dei protagonisti, principalmente di Ginny. La spiaggia e il luna park, con le sue tinte forti, sono per Ginny un altrove tanto vicino quanto illusorio, in contrasto con gli interni in cui la la donna è oppressa dallo stress lavorativo e da una vita famigliare complicata (si pensi al figlio piromane e cinefilo, che frequenta senza alcun risultato lo studio dello psicologo).
In questo doppio movimento, verso lo straniamento, l’artificio e il distacco da un lato, verso il coinvolgimento emotivo del pubblico e il realismo della recitazione, sta il fascino del film, il suo equilibrio sottile. Contribuisce all’effetto straniante la figura di Mickey, il bagnino con ambizioni da scrittore, interpretato da Justin Timberlake, che funge da narratore interno, con tanto di voce fuori campo e sguardo in camera (Allen, da Io e Annie a Basta che funzioni, è ormai abitué di questa forma di interpellazione). Facendo perdere la testa a Ginny, Mickey è inoltre la scintilla che risveglia nella donna, insieme alla sensualità, il desiderio di riscatto e l’indole sognatrice che ne alimentano il conflitto interiore.
Ginny è l’ennesimo personaggio alleniano passionale e sensibile, ma poco pragmatico, che non riesce a venire a patti con la realtà e perciò, nella visione del mondo fatalista e cupa di Allen (tuttavia non priva di una certa pietas verso i perdenti, gli sconfitti e i sentimentali), è inevitabilmente destinata al fallimento e a scelte morali ciniche e completamente sbagliate, in particolare dal momento in cui scopre che il sogno di una vita con Mickey è minacciato dal legame tra il ragazzo e Carolina. Il tema della colpa tipico del morality play alleniano (Match Point, Crimini e misfatti, Irrational Man) e la dicotomia tra fantasia e realtà, che attraversa l’intera filmografia del regista statunitense in tutta la sua eterogeneità, ribadiscono l’unicità autoriale del cineasta, trait d’union tra l’ambizione del miglior cinema europeo e la prolificità dei grandi del cinema classico americano.