Nel primo capitolo di Una questione privata – il romanzo di Beppe Fenoglio – non c’è nebbia, non ci sono nubi, se non in lontananza. L’aria è grigia ma tersa. I Taviani, al contrario, aprono il loro film entro una nebbia così fitta che i personaggi sono costretti a tenersi vicini e ad avanzare con sospetto. Nei suoi spostamenti sulle colline di Alba, Milton riconosce un albero, un vialetto in pietra, poi un cancelletto e infine una sagoma femminile, frammenti di un ricordo troppo caro per essere confuso. Ora impegnato nella Resistenza partigiana, Milton ritrova la casa di Fulvia, dove assieme all’amico Giorgio i due trascorsero i loro pomeriggi migliori, imbevuti di giovinezza ed entusiasmo, a leggere letteratura francese, inglese e americana, e a ballare sui primi dischi jazz in circolazione, tenendo il volume sempre troppo alto. Ora quelle stesse stanze, così vive nel ricordo, appaiono buie, fredde, abbandonate. Solo la custode è rimasta, ma è vestita di nero, e parlando piano, come stesse piangendo un imprecisato lutto, rivela a Milton che Fulvia e Giorgio erano molto intimi e che forse la ragazza, tra i due, aveva infine scelto Giorgio. Milton le chiede di rimettere un disco, Over the rainbow, uno dei preferiti di Fulvia, ma l’effetto non è più lo stesso: la gioia si tramuta in nostalgia, la fiducia in insicurezza, e i suoni che prima riempivano di calore ora lasciano il posto a un greve gracchiare, che viola quella casa e quasi profana il ricordo. Si celebra la fine dell’innocenza, i sogni e le speranze colmano ormai le fosse, la vita assomiglia a quella nebbia in cui sembra esistere solo il presente. Il passato è un fantasma, il futuro è un’incognita senza durata.
La nebbia dei Taviani è la Storia, che si muove in spessi banchi, e vista da fuori sembra avere una direzione, un senso, una causa, ma una volta varcata lascia spaesati e non permette di vedere altro che la propria “questione privata”. Per Ivan, che accompagna Milton all’inizio del romanzo e del film, quella casa non è altro che un ostacolo o un possibile nascondiglio. Il giovane incita il compagno a proseguire e, indirettamente, a non ricordare: le questioni private sono incomunicabili e la sua è chissà dove, lontana o dimenticata. Ivan assume il ruolo di chi è governato dalla prudenza e dalla paura, uno degli attori anonimi che ci si aspetta di trovare in una guerra e che seguono il corso degli eventi, privi di domande e poco inclini alla memoria. Milton invece, dopo aver toccato con mano il passato e essersi riscoperto individuo in un momento storico in cui il gruppo, il collettivo e lo schieramento erano tutto, diventa una biglia impazzita e infaticabile, alla ricerca di risposte che altro non sono che garanzie di un futuro, ancora e nonostante tutto possibile. Una ricerca che si conferma disperata: i Taviani ritraggono un personaggio in eterno ritardo, che esiste sempre quando qualcosa è già accaduto o quando qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo è già morto. Milton coi suoi piedi di Uomo si trova a rincorrere la Storia, che è veloce ed imprevedibile. La sua diventa una quête cinica e desolata: la sua paura di non avere certezze si tradurrà nella voglia di morire, di offrire il proprio corpo ai fucili fascisti pur di non soffrire il dubbio e l’attesa.
Il tono maturato dai Taviani è elegiaco, pacato, descrittivo: ben lontano dall’epica eroica o celebrativa, ha piuttosto l’aria di un racconto del focolare, con le parole pesate ed il ritmo meditativo di un vecchio narratore a guidarlo. Emergono però due momenti che sono come quadri di genere, note alterate in un contesto altresì fin troppo omogeneo. Lo spettacolo improvvisato e futurista di un prigioniero fascista aggredisce con sillabe e suoni lo spettatore ed è il vero acme del film: è sul primo piano del prigioniero che la ricerca di Milton si sospende e si estranea dal tempo, è sul suo crescendo che sentiamo le speranze crollare, svanire. Dopo il colpo di pistola che azzittisce il soldato, la verità su Milton comincia ad essere palese e nuda. Una verità cruda e intollerabile come quella della bambina distesa tra i suoi familiari morti, sulla terra fredda, che si alza per andare a prendere un bicchiere d’acqua e torna a coricarsi tra i cadaveri dei propri cari, così simile a loro.
Sono queste due scene a farsi carico di tutto il controcanto alla vicenda di Milton, le uniche in cui egli assiste come spettatore e non agisce da principale vettore alla vicenda: i Taviani hanno la lucidità di scolpirle con uno stile differente, che rompe l’andamento di Una questione privata e porta con sé lo strazio di istantanee rivelazioni. Così se Milton incarna, almeno all’apparenza, una tensione costante, una direzione, uno scopo, è soprattutto quando esce di scena che il tempo sembra fermarsi, liberarsi e abitare un ciclo disinteressato, che potrebbe essere infinito se la violenza di una pistola nel primo caso, o il silenzio della morte nel secondo, non intervenissero. Non c’era modo migliore per ritrarre l’ideale fascista nella sua vanagloriosa pretesa di porsi al di fuori del tempo: totale, come il dolore o il dubbio, e totalizzante, come l’amore che resiste e riemerge anche nel mezzo di una guerra. Paradossalmente, le scelte di Milton lo pongono nella stessa posizione al di là di ogni contingenza: la sua figura non traccia mai ombre, sfugge al presente e si muove in un’altra dimensione, tanto che i proiettili nemici sembrano non trovare mai il suo corpo, come se fosse invisibile, appunto incorporeo. Come se fosse già morto.