Madre! è un’invocazione, oppure un urlo vacuo. Dipende dalla prospettiva e dipende dai significati che si provano ad attribuire a un film che può anche risultare stratificato, profondo, illimitato, ma che allo stesso modo finisce per estendere questa profondità a tal punto da precipitare nel vuoto. Aronofsky non ha mai abituato il pubblico alle grandi narrazioni, lo ha viziato al contrario con deliri ben calibrati (π – Il teorema del delirio) e pedinamenti che documentassero, quasi in chiave esegetica, le vite di quelli che erano costretti loro malgrado a subirli (The Wrestler, Il cigno nero). Il problema dell’ultima sua fatica è se a tutto questo sia necessario porre un confine, scongiurando il vaneggiamento.
Ricominciamo da capo: Madre! è un urlo e un’invocazione, che però portano in seno un delirio di onnipotenza nel quale l’ossessione per l’annullamento dello spazio e del tempo del racconto diventa l’ostacolo più grande da sormontare. Di fronte ad esso, come spettatori, non ci è concesso altro che rassegnare le nostre dimissioni dalla visione. Avevamo sempre avuto la sensazione di poter affiancare concretamente i personaggi raccontati da Aronofsky, di essere in grado di percepirne le urgenze, le angosce, i tormenti. Di fronte alla Lei/Jennifer Lawrence, invece, non ci sentiamo presenti, ma come distanziati dalle possibili metafore e dai probabili simbolismi della vicenda. Ciò che miseramente fallisce è proprio l’uso dei caratteri utilizzati: una quantità di personaggi che si riversano senza dotare del minimo spessore la loro unicità. Non basta la bravura di un Ed Harris che gioca attraverso gli spiragli che gli sono concessi, né quella di una Pfeiffer che gigioneggia nel misero tempo donatole: a imporsi sull’immaginario sono lo smarrimento della giovane donna protagonista, tanto più irritante quanto più (arbitrariamente) contrapposto alla serafica teatralità di un enigmatico Lui, il poeta in crisi di ispirazione affidato a Javier Bardem.
E poi c’è il registro utilizzato: la modalità con la quale il caos che regna nella casa della coppia è trattato, dà origine a quanto di più involontariamente comico si potesse creare nel cinema hollywoodiano contemporaneo. A esasperare non sono soltanto le performance, né gli squinternati magismi – atti a evocare chissà quali anfratti da surrealismo codificato – o il misero e inerme spettro d’intenzione autoironica (si ha piuttosto la sensazione che il film si prenda, dall’inizio alla fine, tremendamente sul serio). A fallire, in Madre!, è insomma il piano strettamente comunicativo: si può dire tutto ciò che si vuole, ma occorre comprendere se questo “tutto” si integri con la coerenza interna del discorso. Il loop dei contenuti che abitano il film non rafforza o serra il messaggio, e la partita tra l’unicità (Lei o Lui) e la molteplicità (chiunque invada la casa), lo scontro tra l’Uno e il Mondo che il film esplora, alla fine si sgonfiano, perché non esiste alcuno scambio che faccia da connettore nel quadro ideologico che un conflitto di questo tipo desidererebbe – e di conseguenza, giustamente, dovrebbe – mettere in scena.
È una lotta di immagini che si sovrastano, si sorpassano, si accatastano e che vogliono – citando Deleuze – tendere al rizomatico, che aspirano a fare della radicalità del testo qualcosa di assoluto, ma che sfortunatamente presentano una totale assenza di ambivalenza. “Un concatenamento è precisamente questa crescita di dimensioni in una molteplicità che cambia necessariamente natura man mano che aumenta le proprie connessioni”[1], scriveva il filosofo francese. Ecco, la più grande incapacità di Madre! è quella di non riuscire mai a facilitare l’immagine nel suo compito di formalizzazione simbolica, negandole qualsiasi tipo di connessione con significati, concetti, espressioni. E, alla fine, non c’è ricostruzione del focolare domestico, non c’è cristallo magico né punto esclamativo (quello del titolo, ma anche quello che puntella ossessivamente la recitazione), che possano salvare il film dalla più (presumibilmente) involontaria delle catastrofi.
[1] Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010, p. 53.