Con il suo precedente, l’ultimo lungometraggio di Mike Mills forma una sorta di dittico, dedicato ai genitori del regista. Se Beginners era infatti ispirato al padre di Mills e al suo inaspettato coming out, avvenuto poco tempo prima della morte, 20th Century Women, pur raccontando l’adolescenza di un timido ragazzino, Jamie, è invece un film prevalentemente al femminile, e soprattutto il ritratto di una madre, molto somigliante alla vera genitrice di Mills. Che il regista americano sia da sempre ossessionato dai rapporti familiari problematici, lo ricordava già del resto la vana ricerca di punti di riferimento adulti in cui s’impegnava l’adolescente nevrotico Justin nel suo primo film, Thumbsucker – Il succhiapollice.
Chi si aspetta da Mills un cinema trasgressivo non può che rimanere deluso: “épater le bourgeois” non è tra le sue intenzioni. L’unico coraggio che ha è quello dei sentimenti, ed è proprio questo che lo rende così sottilmente controcorrente. Nel suo cinema realista, così vicino alla vita, non ci sono sperimentazioni avanguardistiche sulla forma. A parte l’omaggio a Koyaanisqatsi, l’unica concessione di Mills che impedisce alle immagini di assumere l’aspetto opaco tipico di molte produzioni ambientate nel passato, sono le macchie di colori brillanti che arricchiscono le inquadrature tradizionali. La sua narrazione è tuttavia tutt’altro che lineare e l’uso del flashback, retto dalla voce over dei personaggi, risulta cifra parecchio insistita. Insieme agli inserti di foto e immagini di repertorio (in particolare, guardiamo in tv, insieme ai protagonisti, Jimmy Carter pronunciare il suo “Crisis of Confidence Speech”), l’analessi ha infatti lo scopo di aggiungere sempre nuovi tasselli al puzzle esistenziale dei personaggi. È a loro che Mills è principalmente interessato, a trasformarli da semplici pedine in esseri umani complessi.
Senza una perfetta direzione degli interpreti quest’intento non sarebbe raggiungibile. Nel volto delicato di Annette Bening, nella sua mimica, c’è tutta la dolcezza di Dorothea, donna d’altri tempi, fan del jazz (Benny Goodman, Rudy Vallee, Louis Armstrong, Brick Fleagle) e di Casablanca, terribilmente preoccupata di non riuscire a capire il figlio Jamie, a partire dai suoi gusti musicali, orientati verso il rock delle band che suonano nei club come lo Starwood di West Hollywood.
L’altro personaggio femminile importante del film è Abbie. Ascolta Talking Heads, Raincoats, Siouxsie and the Banshees. La interpreta Greta Gerwig, sempre adattissima come ragazza “alternativa”/creativa. Nella sceneggiatura, Abbie è stata sviluppata sulla base della personalità di Megan, sorella maggiore di Mills, frequentatrice del mitico CBGB negli anni d’oro del punk. Proprio come Abbie nei confronti di Jamie, Megan è stata il vero ponte tra la rivoluzionaria cultura DIY (“Do It Yourself”) della scena musicale underground USA anni ’70-‘80, e il background culturale, ancora in formazione, del giovanissimo Mike Mills.
Un contributo fondamentale al realismo di 20th Century Women è offerto, ça va sans dire, dalla colonna sonora. Numerose le band che si ascoltano nel film. Tra queste, Talking Heads e Black Flag sono quelle di cui si discute anche nei dialoghi, esempi di sonorità e modelli di vita agli antipodi. Attenzione anche ai costumi e alle acconciature: la stilosa Abbie che indossa t-shirt di Lou Reed e Devo, si tinge i capelli di rosso in onore del David Bowie di L’uomo che cadde sulla Terra; Jamie che viene pestato da un bullo perché ha una maglietta dei Talking Heads.
Infine, le preferenze letterarie dei personaggi. Indicate da didascalie con tanto di anno di pubblicazione, li definiscono con una precisione fin troppo didascalica. Julie, la ragazza irrequieta e promiscua di cui Jamie è innamorato, senza essere ricambiato, legge lo scabroso Forever di Judy Blume e The Road Less Traveled di M. Scott Peck. La femminista Abbie presta, invece, a Jamie Our Bodies, Ourselves del Boston Women’s Health Book Collective, Sisterhood Is Powerful di Eleanor Holmes Norton e Frances M. Beal, The Politics of Orgasm di Susan Lydon. Jamie, per ricostruire un rapporto con la madre, legge addirittura It Hurts To Be Alive & Obsolete: The Ageing Woman di Zoe Moss.
Se Mills non fosse un regista dotato di ironia, capace di non prendersi troppo sul serio, lo accuseremmo di nozionismo e pedanteria. Nel cinema statunitense meno incline ad assecondare le mode del mainstream, nel cosiddetto “indie”, di famiglie disfunzionali e colti film-bignami se ne sono visti tanti. Eppure, la sensibilità di Mills e il suo gusto per i dettagli, da vero designer qual è stato nella vita professionale, uniti a una rara capacità di rielaborare le vicende autobiografiche, rendendole appassionanti per gli spettatori, ne fanno un regista prezioso, nel cinico panorama cinematografico contemporaneo, così povero di veri umanisti e di film ben scritti.