Bong Joon-ho racconta che l’idea di Okja nasce da un miraggio, una di quelle apparizioni che si manifestano alla periferia dello sguardo mentre siamo impegnati a fare altro: viaggiando su una strada del suo paese natio, il cineasta sudcoreano scorse un buffo pachiderma che si ritraeva timidamente a lato della carreggiata, salvo poi scoprire che tale creatura era interamente frutto della sua fantasia. Cosa resta, allora, di quel miraggio? Senza dubbio resta la timidezza dell’eponimo pachiderma, un super-maiale concepito in laboratorio per sfamare l’appetito dei consumatori occidentali. La responsabile è una multinazionale chiamata Mirando (l’assonanza con Monsanto è piuttosto ovvia) che punta ad allevare questa nuova specie per farne bistecche e salsicce a basso impatto ambientale, nascondendosi dietro la maschera di un neoliberalismo falsamente progressista che valorizza gli allevatori locali e le rispettive culture: non a caso, i primi esponenti di questa nuova stirpe animale – composta da suini molto più simili a ippopotami che a maiali – vengono affidati a diversi allevatori in giro per il mondo, perché possano crescere sani e forti in ambienti naturali. Fra di essi c’è proprio Okja, adottata da un anziano contadino sudcoreano e dalla sua nipotina Mija, con cui il tenero pachiderma sviluppa un rapporto simbiotico. Trascorsi dieci anni, però, Mirando reclama la sua creazione, e Mija è costretta a inseguire Okja fra le strade di Seul e New York, aiutata dai membri del Fronte di Liberazione Animale.
Se la cornice bucolica rievoca l’utopia del ritorno alla natura, con un legame tra bambino e animale che cita indirettamente Pete’s Dragon e altre opere di quel tenore, il sogno da film per famiglie si trasforma ben presto in un incubo à la Fast Food Nation, finale compreso: pur operando nei territori del fantastico, Bong Joon-ho squarcia il velo di Maya che copre l’industria di macellazione delle carni, svelando la precisione scientifica del massacro e i suoi ritmi da catena di montaggio. Nell’avventura di Mija e nelle operazioni del FLA non c’è spazio per alcun tipo di ingenuità naïf, tutt’altro; gli elementi fiabeschi sono relegati nel prologo e nell’epilogo, mentre l’azione rocambolesca (l’inseguimento in un centro commerciale di Seul dove Okja fa valere la sua stazza) è una trovata di puro entertainment che appare quasi avulsa dal contesto, peraltro con raffinate competenze tecnico-registiche messe in campo dal cineasta. Bong, però, non s’illude che l’empatia o l’animalismo possano cambiare il mondo, e riserva il lieto fine solo al caso specifico di Mija e Okja, non alla battaglia universale contro Mirando e i suoi epigoni: l’ideologia esce sconfitta dal confronto con le logiche di mercato, e il compromesso è l’unica forma di sopravvivenza. L’impossibilità di ascoltare tutti, di prestare orecchio a tutte le voci che invocano aiuto, è un’avvilente consapevolezza che emerge dalla penultima sequenza del film, crudelmente verosimile nella sua trasparenza simbolica: il capitalismo è un demone con cui si può trattare, ma che non è disposto a sacrificare il profitto in nome del buon cuore. Lo sguardo amaro di Bong, comunque, non esclude una flebile speranza per il futuro, che in Okja trova sfogo nel maialino salvato dal macello, così come in Snowpiercer era rappresentata dalla giovane Yona e dal bambino-operaio.
Sono gli “ultimi”, i diseredati, i reietti, a meritare l’affetto del regista, non i “potenti” o le istituzioni cui fanno capo. Se il mostro di The Host nasceva dall’idiozia umana, i super-maiali di Okja traggono origine da un’avidità compulsiva che si traduce in un consumismo altrettanto morboso, fedele alla legge tipicamente americana del bigger is better. L’occhio satirico di Bong ritrae un’America dove tutto è spettacolo, tutto è messo in scena e accuratamente coreografato per manipolare le emozioni, agendo sulla pancia – prima ancora che sulla mente – delle platee internazionali. L’esasperazione dei toni rientra nei meccanismi della satira, e ancora una volta il regista sudcoreano non tradisce il suo spirito grottesco: ciò che ne deriva, a tratti, è una farsa parossistica che esaspera soprattutto le interpretazioni degli attori, come dimostra la performance febbricitante di Jake Gyllenhaal nel ruolo di un assurdo veterinario televisivo. Nel clima caotico e disilluso di Okja (disilluso, sì, perché il lieto fine suona come una sconfitta di fronte al quadro generale), certi dialoghi paiono goffamente costruiti per dare informazioni al pubblico, e le fasi di azione o di shock emotivo risultano più efficaci di quelle parlate: d’altra parte, Bong non ha bisogno di parole per esplicitare la sua posizione, poiché il disagio dello spettatore deriva da una presa di coscienza, fastidiosa e sconfortante, della propria ipocrisia. La rielaborazione del family movie compie qui un’acrobazia insperata, trasfigurandosi in una parabola animalista che non spaccia una facile retorica per coccolare il suo target, ma lo spinge quantomeno a rimettersi in discussione.