Note per una Storia Visuale della Reificazione delle Emozioni nel Regime Capitalista o, per essere più espliciti, FUCK THE MONEY
a David E. James
Ouverture
La società moderna che già dalla sua prima infanzia ha preso Plutone per i capelli, e lo va traendo fuori dalle viscere della terra, saluta nell’aureo Gral la splendente incarnazione del suo principio di vita più proprio. (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo 3 [1867])
Storia del Cinema e Storia delle Idee
Tre film d’autore a basso budget. Per John Cassavetes e Abel Ferrara niente di straordinario. Quanto a Lubitsch: un budget inferiore ai 500 mila dollari, un film girato in 28 giorni nel novembre del 1939.
Scrivimi fermo posta (1940) è l’adattamento di una piece teatrale di Miklós László intitolata Parfumerie (1937). L’assassinio di un allibratore cinese (1976/1978) viene da una sceneggiatura originale di John Cassavetes (con un piccolo aiuto da parte di Martin Scorsese). Go Go Tales (2007) è la trasposizione newyorkese e semplificata di L’assassinio di un allibratore cinese, remake esplicito anche se non dichiarato, dal momento che interi dialoghi sono ripresi alla lettera dal film di Cassavetes.
Scrivimi fermo posta pone come premessa la fantasia femminile dell’Uomo Ideale al fine di descrivere le relazioni di forza nel mondo del lavoro. L’assassinio di un allibratore cinese elabora con inventiva forme di narrazione da incubo e le decostruisce per esprimere liberamente le possibilità figurative legate alla rappresentazione del corpo femminile. Go Go Tales – sotto l’apparenza di una spensierata fantasticheria – punta il dito contro l’incubo in cui si sono trasformate le relazioni umane nel regime capitalistico.
Scrivimi fermo posta trasforma gli esseri umani in schiavi delle merci.
Per mezzo di un protagonista indebitato a morte, L’assassinio di un allibratore cinese ci mostra come sia ancora possibile scardinare la reificazione delle relazioni umane. Il protagonista, Cosmo Vitelli (Ben Gazzara), gioca d’azzardo e sprofonda sempre più tra i suoi debiti. Alla fine, così come all’inizio, l’eroe è simbolicamente morto e il film si presenta dunque come un’impossibile parentesi.
Go Go Tales descrive un mondo in cui il denaro detta legge senza impedimento alcuno. Indebitato, il protagonista Ray Rubin (Willem Dafoe) gioca d’azzardo per salvarsi la vita. Alla fine ritrova il biglietto che pensava di aver perso e il film finisce per configurarsi come un sogno agonizzante invano.
Scrivimi fermo posta fa passare nel cuore della prestigiosa MGM un audace pamphlet sulla questione della reificazione delle emozioni; offre un’analisi e una diagnosi dell’invasività del motivo di profitto nelle relazioni umane. Quasi in contemporanea, un altro immigrato tedesco di stanza a Hollywood scrive:
“Qui in America non vi è alcuna differenza tra un uomo e il suo destino economico. Un uomo è fatto dal suo patrimonio. La maschera economica coincide del tutto con l’interiorità dell’uomo. Ciascuno vale quanto guadagna e guadagna quanto vale. Sa ciò che è sulla base delle vicissitudini della sua esistenza economica all’interno del capitalismo. E non sa nient’altro” (1)
In una Hollywood che viveva il suo decennio più creativo e contestatario, L’assassinio di un allibratore cinese descrive le condizioni di viabilità per un’utopia estetica e sentimentale all’interno del mondo degli affari. Si offre come l’ultimo film hippie, una piattaforma di proposte estetiche sul tema della ricostruzione cinematografica – aspetto che attende di essere ancora analizzato a fondo. (2)
Negli Stati Uniti di George Bush, imbarcati cinicamente in una fase particolarmente sanguinolenta del capitalismo, con l’imperialismo americano pienamente rampante dopo la caduta del Muro di Berlino, Go Go Tales elimina del tutto il fattore umano, così da preservarne solo la sua reificazione.
Claustrofilia
Scrivimi fermo posta trasforma le proprie limitazioni spaziali (unità di spazio: il negozio di Matuschek) in una risorsa cinematografica: nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, Lubitsch non tenta di espandere la dimensione spaziale, al contrario la concentra interamente nei movimenti e nei gesti dei corpi. Lo spazio principale, il negozio, non ha necessità di essere espanso; lo straordinario finale, ottenuto per mezzo di un progressivo estinguersi delle luci, sopprime tutto lo spazio decorativo al fine di focalizzare tutta l’attenzione nelle emozioni che sorgono tra i due corpi destinati a unirsi. Luoghi correlati, inoltre, sono fissati su volti e corpi; piuttosto che contribuire a uno spalancarsi dello spazio scenico, ne riaffermano i limiti: il bar dell’incontro è ridotto appena a un angolo; l’ospedale in cui il capo è in convalescenza e l’appartamento dell’eroina non sono altro che un letto; persino alla strada è negato il classico estabilishing shot. L’apogeo di questa ossessione per i limiti si raggiunge nell’inquadratura del volto della protagonista, Klara Novak (Margaret Sullivan), imprigionata nel riquadro di caselle postali doppiamente vuote: vuote di lettere e mancanti di sfondo, come a materializzare la solitudine e il senso di imprigionamento che dominano la condizione umana. All’esatto opposto di una diversificazione di tipo decorativo, l’aggiunta di questi luoghi annessi al negozio produce un effetto di solitudine affettiva in grado di determinare gli spazi: Matuschek a letto in convalescenza, reduce dal tentato suicidio dopo la scoperta che la moglie ha un amante; Klara, nel suo letto, divorata dal pensiero del suo corrispondente misterioso che sembra non essersi presentato al loro appuntamento. Lettere anonime passano tra Kralik (James Stewart) e il suo capo; lettere scritte sotto pseudonimo tra Kralik e il suo collega. In entrambi i casi, l’eroe trascura il dovere per un male d’amore, e finisce per soddisfare sia il desiderio che la sua assenza di cui soffre l’altro. Per tutti i personaggi, a quanto pare, la comprensione, la compassione e la devozione assumono la forma di James Stewart – figura di intelligenza affettiva.
L’assassinio di un allibratore cinese è elaborato per mezzo di un continuo via-vai dal posto dell’inventiva figurativa, il Crazy Horse West di Cosmo (che sembra non aver altra casa) e gli altri luoghi di Los Angeles, dove tutto conduce a incontri disastrosi, governati da leggi assurde, separati sia spazialmente che temporalmente; perdiamo qualunque senso del tempo (il cinema) o di spazio (l’abitazione dell’allibratore, costruita per mezzo dell’illuminazione e degli stacchi di montaggio), o di famiglia (la casa della “matrigna” che sfida il suo figliastro). Fino a includere le relazioni tra azione e reazione (la scena nel parcheggio), l’automobile che scompare (l’autostrada), il denaro che scompare (la mafia del casinò)… In sostanza, l’unico luogo in cui uno può vivere, ovvero creare, è il Crazy Horse West, e Cosmo preferirebbe morire piuttosto che non poterci più vivere. Il Crazy Horse West si costituisce come luogo in cui le relazioni umane possono diventare piacevoli – ovvero: anziché soggiacere alla logica mafiosa dell’oggetificazione, esse si dissolvono in una totale indeterminatezza. La claustrofilia autorizza l’accesso a una dimensione oceanica del sentire, grazie al quale, senza dubbio, il luogo merita il suo nome Folle (Crazy).
Go Go Tales evoca una claustrofilia cosmica. Gran parte del film ha luogo nel club Paradise di Ray Ruby, e l’unica altra location (il locale delle scommesse illegali) – la cui porta scorrevole si apre due volte – è nello stesso isolato. La minaccia, qui, è la proprietà, la trasformazione del club in una boutique di cosmetici – sorta di summa per la trasformazione di Manhattan in un centro commerciale sotto Rudolph Giuliani. Nel piccolo cabotaggio di Ruby, tutti – il capo, i dipendenti, le spogliarelliste, i familiari, i clienti – pensano solo al denaro, parlano solo di denaro ed esistono solo in virtù del denaro. Ma nel mentre il denaro affluisce, nella forma di biglietti veri o contraffatti, mazzi di biglietti della lotteria che addobbano ogni parete e pezzi di mobilio che funzionano come una sorta di invisibile antimateria che sembra riempire qualunque materiale, tutto va bene: è il Paradiso.
L’Uomo Ideale e il Soggetto della Storia
Benché Alfred Kralik possa sembrare il personaggio centrale di Scrivimi fermo posta, in realtà è costruito come pura fantasia femminile, il “Maschio Ideale” perfetto per qualunque giovane donna del terziario. Kralik prende forma all’interno di un impeccabile movimento dialettico: in quanto ignoto corrispondente è romantico, colto, disponibile, e soprattutto un individuo inconsistente; come collega di lavoro è una creatura prosaica, materialista e noiosa, ma soprattutto pateticamente poco attrattiva, come gli esplicita Klara in maniera sorprendentemente brutale al termine del loro viaggio. Ma, soprattutto, è colui che porterà a termine il difficile compito di sintetizzare queste due dimensioni opposte; ed è proprio così facendo che diventerà il “Maschio Ideale”: Alfred Kralik è la persona sufficientemente pratica da ideare incontri romantici pensati per riportare sulla terra il sogno d’amore. Così come Kralik si adopera per soddisfare i desideri degli altri, il film fa del proprio eroe colui che ha il potere di rispondere alle esigenze più contraddittorie. Nello stile del contenitore che è irritante in quanto portasigari ma ingegnoso in quanto scatola di caramelle (a seconda di chi lo possiede), Kralik è in grado di gestire tutti i quid pro quo perché in lui tutto è vero: contemporaneamente pragmatico e sognatore, tenero e combattivo, egoista e cavaliere, è l’uomo perfetto in possesso di tutte le virtù, classiche e moderne. Gli psicanalisti sostengono che gli uomini non sanno realmente come vedere le donne, che si fissano su una manciata di caratteristiche femminili ed elaborano il resto mentalmente; e si potrebbe pensare che lo stesso facciano le donne in relazione agli uomini. Scrivimi fermo posta si prende la briga di rassicurarci su questo terribile punto: è proprio perché quest’uomo e questa donna non capiscono niente l’uno dell’altro che, in fondo, sono fatti l’uno per l’altro.
Cosmo, contemporaneamente capo, direttore, set designer, manager, amico, amante, artista, soldato, uomo d’azione, giocatore d’azzardo, alcolizzato, idealista, megalomane, perdente e dandy, non è soggetto ad alcun determinismo, affettivo o sociale che sia. Può essere “qualunque cosa”. Simmetricamente, i suoi dipendenti sono allo stesso tempo suoi amici, amanti, schiavi, figlie, guardie del corpo, strumenti, pupazzi, ninnoli e feticci. Con Cosmo, Cassavetes elabora una presenza che non può essere contenuta in un solo modello identitario o relazionale. L’uomo fa esplodere la questione dell’identità per raggiungere la vera eleganza sul piano stilistico: è spinto solo dalla prospettiva di offrire il miglior show possibile ai propri clienti. Per Cosmo, Signor Sofisticazione, e per le ragazze, c’è un unico traguardo, un solo orizzonte: sedurre, procurare piacere, incantare. Cosmo riversa tutta la propria energia nel produrre l’effimero, il provvisorio, il rischioso: uno strano show da quattro soldi nel quale i corpi femminili, per quanto nudi, conservano la propria indipendenza, il proprio mistero e la propria singolarità.
Cosmo conduce la vita di un uomo libero assediato dal denaro; Ray non esiste, la sua è una vita strutturata dall’esca del guadagno economico, è un caso fiduciario. Impiegati, contabili, banchieri, proprietari, allibratori… Ciascun personaggio che lo circonda incarna una particolare relazione con il denaro, ed è in circolazione per tenere in vita biglietti veri o finti – a differenza di Ray che, in tale incessante circolazione di denaro reale e virtuale (i soldi che non hai e sogni di avere) viene a costituire un incrocio fallace e provvisorio. Per quanto seduttivo, Ray è l’unico elemento erroneo nella circolazione monetaria, una sorta di scoiattolo impazzito travestito da “carismatico impresario” (stando al pressbook del film). Nessuno desidera che si metta a ballare; non ha uno show da difendere, solo un affitto da pagare.
La bella vita, la brutta vita, la vita reale
All’interno del mercato del lavoro, come impiegati, Kralik e Klara non si sopportano; ma oltre la soglia di questo mondo, nell’universo compensatorio che hanno creato, si amano con passione. È possibile esprimere più chiaramente l’idea che il mondo economico depriva le persone dell’amore, della gioia, delle loro stesse vite? Lubitsch non esita ad andare ancora più a fondo nella questione: il film descrive nel dettaglio la maniera in cui il pubblico si intromette con successo nel privato. Solo all’apparenza la separazione tra le due dimensioni è totale: la divisione obbligata tra reale e ideale, quella tra vita di lavoro e intimità, resa esplicita quando il capo dice: “Quello che fai dopo il lavoro non mi riguarda”. Ma le relazioni umane sono definite interamente dallo status sociale, come dimostra il fattorino che, divenuto venditore vessa il proprio rimpiazzo; le menti somatizzano e confondono i propri obiettivi, come quando il capo malato soffre nel non vedere più i clienti. In questo mondo, l’unica possibile celebrazione collettiva consiste, tristemente, nel vendere più oggetti possibile e fare molti soldi. Si fosse trattato esclusivamente di un condizionamento professionale la critica sarebbe stata lieve; ma, molto concretamente, in questo mondo del lavoro, gli impiegati modello vengono premiati dopo cinque minuti, le dipendenti del negozio sono felici di non venire molestate sessualmente, i lavoratori più anziani, obbligati a mantenere una famiglia, sono felici di vivere in una camera singola… e questa è solo una piccola parte del modo in cui Lubitsch restituisce nel film il concetto di violenza economica. La storia di Scrivimi fermo posta non è datata; piuttosto, in rapporto all’America contemporanea, corrisponde a un passato ben preciso: nell’era dei grandi centri commerciali che industrializzano il consumo, la vetrina del piccolo, delizioso negozietto ungherese porta con sé l’odore nostalgico del lavoro artigianale, in cui non si tiene conto del tempo che i dipendenti passano a parlare gli uni con gli altri. Scrivimi fermo posta racconta il passaggio dal commercio umano alla totale mercificazione. Perché la sua critica più grande – quella che lo rende un vero capolavoro – sta nella maniera in cui le relazioni del mercato invadono e alla fine soppiantano il discorso amoroso: Kralik trasforma una dichiarazione d’amore in un’ode al borsello in pelle, e in maniera simmetrica alla fine del film, Klara verifica che il proprio fidanzato non abbia le gambe storte – come quando, prima di comprare un carosello si verifica che non abbia difetti. In questo modo si capisce meglio perché, nel bel mezzo della scena in cui flirta con Kralik, Klara cambi completamente atteggiamento vedendo entrare sua zia, proprio come fa il suo capo quando cambia interlocutore, da rabbioso diventando servile. Per quanto toccanti, questi personaggi vivono le proprie emozioni all’interno di una rete di obblighi sociali. Attore, venditore, plagiario, falsificatore, venditore di se stesso come oggetto, innamorato di un altro come di tanti accessori di lusso: ecco l’industrioso uomo del ventesimo secolo.
L’assassinio di un allibratore cinese parte dalla proposizione opposta: lo spettacolo non entra in relazione alcuna con la falsificazione e non costituisce una metafora dell’alienazione propria delle relazioni sociali. Piuttosto, contiene il tesoro ultimo: la possibilità di creare qualcosa di bello in un mondo dominato dal denaro. Il film celebra lo spettacolo in qualità di complessa intelaiatura di una piccola macchina d’amore, libertà e fantasia – incontrollabile e non memorizzabile (il barman che ha assistito allo spettacolo del Crazy Horse West per un decennio non è capace di riconoscere alcuna delle sue canzoni), puro dispendio di energia, desiderio e pretese narcisiste prive di qualunque garanzia sul loro perfetto funzionamento. In virtù del contatto corrosivo con la sua forza sperimentale, lo show del Crazy Horse West inverte e distrugge le miserande modalità che regolano la società e ne imporrebbero la dipartita. Nel Crazy Horse West, il capo, il suo staff, nessuno possiede denaro ma tutti lavorano insieme, le loro (wage claims) si dissolvono mentre cantano una melanconia condivisa – questa è la “bella vita” di chi non possiede niente al di fuori dei propri valori etici. La gente del Crazy Horse West è una tribù sperimentale che ci permette di guardare in maniera differente alle relazioni che intratteniamo con le emozioni, i corpi, noi stessi – persino il fatto stesso della nostra storia condivisa.
Go Go Tales prende il via dalla penultima scena di L’assassinio di un allibratore cinese, con l’ammutinamento delle ballerine non pagate. Ma Ferrara inverte l’anti-mondo di Cassavetes e, mettendosi in relazione con negozio di Lubitsch, il suo Paradise rappresenta una summa fedele del mondo capitalista. Nel Paradise di Ray Ruby una ragazza riceve i soldi dal suo capo durante lo show, un’altra negozia gli arretrati mentre fa sesso, un’altra ancora balla per pagare gli studi al marito che, personificando l’inflazione della corruzione delle relazioni umane, diventa suo cliente senza nemmeno accorgersene… La prostituzione è divenuta la norma, gli esseri umani sono scomparsi, e a configurarsi come evento non è più il (singular) ingresso in scena di volti e corpi sotto le luci rosse e bianche come sul palco del Crazy Horse West ma l’apparizione di biglietti di denaro e della lotteria e la maniera in cui questi oggetti si insinuano dentro o su constumi, pareti, camicie, menti. Le stupende inquadrature al ralenti non sottolineano la grazia delle ballerine ma i bigliettoni che i clienti infilano sui loro corpi. “DARLENE: ballerina di magnifica bellezza, fa il primo turno, conquista la scena sotto il calore delle luci, il suo corpo si muove in perfetta sincronia con il ritmo pulsante della musica”. (3) Quando questo sontuoso personaggio fa il proprio ingresso in scena nel prologo del film, è come il Vitello d’oro. Ma nella Manhattan del ventunesimo secolo, dopo Casino di Scorsese e Showgirls di Verhoeven (entrambi del 1995), “il carattere feticistico delle merci” non richiede più spiegazione alcuna: se non c’è spettacolo al di fuori del denaro e della sua circolazione, i corpi e le menti devono essere soddisfatti di ridurre se stessi a vettori trasparenti, conduttori – eccezion fatta per il momentaneo sbandamento mentale del povero Ruby Ray. Sempre nel 1995 Ferrara ha dichiarato a Douglas Buck: “Ogni dollaro ha attaccata una certa nervosità” (4). Go Go Tales mette in scena la concretezza del denaro e l’inconsistenza degli uomini.
Cinema e Distrazione
Così come Cosmo offre un auto-ritratto del cineasta come dandy sperimentale, e il Crazy Horse West una metafora del cinema come piccolo laboratorio per la messa in scena degli affetti, Ray Ruby può essere considerato il regista che orchestra la distrazione (naturalmente in entrambi i sensi del termine), il Paradise un bricolage caotico in cui può manifestarsi un momento di assurda gioia infantile (il monologo del fratello di Ray, Johnny [Matthew Modine], e il suo residuale idealismo quando sogna di dirigere per il teatro), le prostitute come sceneggiatrici, e i loro clienti come produttori. A un certo punto, inoltre, il Paradise diventa una sala prove per attori non professionisti, la guardia del corpo diventa un Brando dei poveri che recita la celebre tirata del Giulio Cesare, e Ray si trasforma in… Cosmo Vitelli:
Qualità della vita… che dire della qualità della nostra vita? La libertà di espressione, la creatività, la passione. L’amore reciproco. Non desidero una fottuta abbronzatura o un appartamento a Miami, significherebbe entrare in una bara da vivo. Sono vivo e non intendo nasconderlo.
Di conseguenza tutto è falso, anche lo spettacolo. La speranza arriva dalle profondità più recondite: la sceneggiatura che Debbie (ballerina, puttana, sceneggiatrice) vende al suo cliente/produttore Stanley si intitola A Gun for Stephanie – titolo che richiama A Gun for Jennifer, piccolo film gore realizzato da Todd Morris e Deborah Twiss nel 1996, una granata anarchica che meriterebbe, oggi più che mai, un remake ancora più distruttivo e liberatorio.
(testo pubblicato per gentile concessione dell’autrice e degli editori; traduzione di Alessandro Stellino)
NOTE
(1) T. W. Adorno and Max Horkheimer, ‘Two Worlds’ in Dialectic of Enlightenment (New York: Social Studies Association, 1944).
(2) Nicole Brenez, Cosmic Cinema – The Killing of a Chinese Bookie: The Rebirth of Aesthetics.
(3) Go Go Tales, trattamento di Simone Lageoles e Abel Ferrara (2002). Si noti che per la sceneggiatura definitiva è accreditato il solo Ferrara.
(4) Douglas Buck, Fuck the Noise: Filmmaking, At Any Cost, (1995). Un ringraziamento a Brad Stevens per aver portato il film alla mia attenzione. (Di recente, Buck ha girato il remake di Sisters con Chloë Sevigny e Lou Doillon).
(5) Go Go Tales, trattamento di Simone Lageoles e Abel Ferrara.