Scegliere un tema forte è un rischio, per un film. In un sistema mediatico che ha sempre privilegiato il referente alle forme linguistiche scelte per articolarlo, gli autori del cinema contemporaneo hanno spesso rifuggito la scelta di affrontare di petto questioni nevralgiche della società, preferendo procedere per storie particolari riconducibili solo in seconda istanza a determinati momenti storici, tendenze politiche o sociali. Robin Campillo sembra non aver avuto paura di questo rischio, arrivando a Cannes con un’opera sulla bocca di tutti come “il film sull’AIDS”. Ha corso un rischio, quello di essere snobbato da chi è in cerca di sguardi d’autore, ma lo fatto con una consapevolezza tale da permettergli di trasformare un tema politico in discorso militante, insito nel tessuto stesso delle sue immagini in movimento. Lungometraggio francese più atteso della selezione ufficiale, l’unico firmato da un regista per la prima volta in concorso a Cannes, 120 battements par minute non è soltanto un film di attori (come è stato detto e scritto per le appassionate interpretazioni di Nahuel Perez Biscayart, Arnaud Valois e Adèle Haenel), ma soprattutto un’opera che sa affrontare diversi concetti chiave da sempre al centro di un fertile incontro tra politica e arte: la rappresentazione della trasformazione della parola in pensiero e in gesto politico, la complessa distanza tra corpo politico e destino individuale, la nostalgia che vela le contraddizioni vissute nei momenti di lotta e finisce per appiattire ogni singola scelta (e vita, in questo caso).
Su questi binari si sviluppa l’architettura del film, forte di una scrittura lucida e potente, che conferma Robin Campillo artefice delle narrazioni più innovative del cinema francese contemporaneo. Da una parte il suo Les Revenants (che poi ha dato vita alla serie televisiva) insinua l’elemento perturbante nella quotidianità per mettere in crisi la razionalità della società odierna, dall’altra con La classe di Laurent Cantet, di cui è sodale montatore e sceneggiatore fin dai primi lavori, ha saputo trovare una chiave drammaturgica nella costruzione di un film che segue unicamente l’elaborazione del discorso nel suo tramutarsi (o meno) in dialogo. Proprio questo ruolo duplice di sceneggiatore e montatore, all’inizio e alla fine del complesso processo narrativo di un film, crea uno strano effetto: come se le opere di Campillo (o quelle in cui l’autore è fortemente coinvolto) seguano un processo di progressiva messa a fuoco delle istanze linguistiche in campo. La precisione del punto di vista della narrazione viene portata all’estremo in fase di riprese e di montaggio, in una continuità di sguardo che concede ben poche distrazioni all’istanza spettatoriale.
Fin dalle prime immagini, 120 battements par minute richiama quel gioco di assunzione delle forme documentarie da parte della fiction che era alla base de La classe. Bipartito, come il film di Cantet diviso tra gli autoritratti dei ragazzi e le loro discussioni in classe, anche questo racconto del movimento Act Up Paris nei primi anni Novanta si articola tra i momenti di presa di parola durante le assemblee (con i conseguenti gesti di contestazione pubblica) e i momenti onirici dove i corpi e i volti dei protagonisti sono colti tra le luci strobo di una discoteca, liberi di muoversi in uno spazio in cui a dominare sono unicamente gli spasmi dei loro stati d’animo. Se nel film d’ambientazione scolastica la camera sembrava spinta dal flusso verbale, pronta ad arrestarsi nei monologhi e a prendere vita nelle scene corali, qui centro propulsore è l’assemblea in cui si delineano i caratteri dei singoli personaggi nella loro capacità di guidare il gruppo o di farne parte, di prendere la parola o di restare in ascolto, di vivere ogni intervento o di lasciarsi sopraffare dalla mancanza di risposte adeguate. Proprio sulle discussioni in seno al gruppo, ancora di più che sulle azioni di protesta, si concentra la narrazione di questo film fluviale (2h e 20 minuti), riuscito nella sfida di rendere partecipe lo spettatore nelle diverse fasi attraversate dall’assemblea, che in un crescendo di interventi, repliche, discussioni e silenzi si dispiega come pratica possibile della costruzione di un discorso politico collettivo. Un modo per affermare (senza scriverlo sui manifesti) l’importanza della comunità LGBT come una delle ultime cellule occidentali sovversive e militanti.
La lotta di Nathan, Sean e Thibaut è dettata da un’urgenza, ancora più che l’esclusione dall’immaginario collettivo (ben rappresentata dallo shock di vedersi sui giornali solo tumefatti dall’AIDS), dalla brutalità di essere tramutati in cavie da parte di un sistema medico che sembra non registrare l’urgenza del numero crescente di vittime. Sul modello newyorkese, il movimento prende piede anche a Parigi, registrando un cambiamento nella percezione dell’omosessualità e anche una trasformazione nell’autorappresentazione dei militanti. Sean, creativo ed esuberante quanto fragile e autodistruttivo, vuole smettere di marciare come uno zombie e inventa una schiera di ragazzi pon-pon che portano per le strade un grido esultante di condivisione. Il suo gesto servirà da spunto per pensare in maniera diversa la protesta, che da quel momento si trasforma in messa in scena esuberante ed efficace. La regia di Campillo si muove su un doppio registro: il realismo dialettico della parola lascia spazio a studiate coreografie visive, volte a esaltare la bellezza della manifestazione, dell’essere insieme per una causa, in un moto prestabilito in cui ogni gesto è passato dall’approvazione di un’assemblea. Nelle lunghe sequenze in cui è suddiviso l’andamento del film, si passa in maniera armoniosa dai primi piani (dominanti nella narrazione) a totali che esaltano i movimenti armoniosi del gruppo, che siano composti nelle inquadrature dall’alto o coreografati in sinuosi pianisequenza. Nella loro rivolta pacifica, è il sangue a dominare la scena: imbratta le pareti delle case farmaceutiche, i completi dei burocrati, fino a sostituirsi all’acqua della Senna, raggiungendo (almeno nel sogno) finalmente il centro e colmando un’attenzione negata.
120 battements par minute raggiunge i suoi momenti più belli proprio nel diventare non solo un film sulle battaglie di Act Up, ma sulla radicalità dell’intervento politico collettivo. Per questo non sappiamo nulla dei protagonisti di questo film, quasi non conosciamo i loro compagni, il loro passato e nemmeno (come fa notare Nathan nel film) la professione che svolgono fuori dal movimento. Quello che li definisce non è essere un impiegato o un infermiere, ma il loro impegno per la causa. Ed è proprio a questa causa che il film aderisce in maniera così totalizzante da far passare in secondo piano persino la struggente storia d’amore tra Nathan e Sean: ne è solo una figurazione altra che permette di allargare il discorso per sottolinearne la complessità nel tragico finale. Sean crede alla causa, ma si ritrova a fare i conti con la propria malattia che lo costringerà a smettere di lottare, facendogli provare la paura della morte. E, con lui, Nathan si trova a guardare a distanza da una parte la sconfitta esistenziale, dall’altra la vittoria collettiva, in una delle calibrate e raggelanti inquadrature conclusive. Niente è facilmente risolto, ma la battaglia continua.