Josh Safdie stava facendo location scouting nel Diamond District di New York, quando ha notato la diciannovenne Arielle Holmes in metropolitana ed è rimasto colpito dal suo “richiamo gravitazionale” (1). Holmes, all’epoca senzatetto ed eroinomane, è poi diventata la protagonista di Heaven Knows What (2014), terzo lungometraggio diretto da Josh con il fratello Benny. In realtà Safdie aveva avvicinato Holmes pensando di coinvolgerla in un altro progetto, sempre come attrice, ma conoscendola meglio è rimasto talmente colpito dalle storie che raccontava sulla sua vita di strada, che ha deciso di posticipare il lavoro sul soggetto d’origine. Holmes l’aveva infatti contattato mesi dopo il loro primo incontro, appena uscita dall’ospedale dove era stata ricoverata per tentato suicidio. Da quel momento Safdie l’ha incoraggiata a mettere per iscritto le sue esperienze, proponendole di pagarla a pagina. In poco tempo ha prodotto un manoscritto di 150 pagine intitolato Mad Love in New York City. Le descrizioni della sua tormentata relazione con Ilya, un fan di musica black metal, il rapporto coi ragazzi di strada con cui passava le giornate e il tran-tran quotidiano della dipendenza sono diventati poi la base della sceneggiatura di Heaven Knows What.
L’onestà della scrittura di Holmes si è riproposta in un’interpretazione straordinariamente cruda e credibile nei panni di Harley, il suo alter-ego cinematografico. Safdie notava che Holmes “esiste per istanti”(2) e forse è stato proprio questo suo stato mentale a permetterle di prendere le distanze dalla propria esperienza personale per essere in grado di ricrearla di fronte alla macchina da presa. Combinando una storia di dipendenza femminile ispirata a fatti realmente accaduti e una messinscena iperrealistica, Heaven Knows What si colloca all’interno di una tradizione cinematografica inaugurata dalla sceneggiatura di Joan Didion per The Panic In Needle Park (1971) e portata avanti da Christiane F. in Noi I ragazzi dello Zoo di Berlino (1981). Dal punto di vista tematico tutti e tre i film approfondiscono anche la sovrapposizione emotiva (e narrativa) tra l’esperienza della dipendenza e quella del primo amore. E in Heaven Knows What la ricerca spasmodica di Harley per le droghe è rappresentata con lo stesso fervore, la stessa intensità dedicati alla relazione sentimentale.
Fungendo da anello di congiunzione indispensabile tra il soggetto e i creatori del film, Holmes ha partecipato in molti aspetti della lavorazione, compresi il casting e la ricerca delle location: era lei a capire quali erano i posti e le persone, e soprattutto il tempo della storia. A parte Caleb Landry Jones (attore professionista nel ruolo di Ilya), tutti gli altri personaggi sono interpretati da persone che, come Holmes, non avevano mai recitato prima ma avevano fatto esperienza di “vita di strada”. E ciononostante, i Safdie sottolineano come non sia del tutto corretto considerare queste figure come attori non professionisti: “[‘attori non professionisti’ implica] che non sono attori per davvero, mentre in realtà è semplicemente la prima volta che recitano”(3). Soprattutto laddove l’abilità di “recitare” è un requisito essenziale quando si tratta di sopravvivere in strada: in fin dei conti chiedere spiccioli, taccheggiare o acquistare/spacciare droghe sono tutte attività che richiedono di metter su, in un modo o nell’altro, un teatrino.
Lavorando con “drogati veri” e incoraggiandoli a dare il loro contributo al film, i Safdie hanno ricreato un mondo capace di raccontare la fascinazione per le droghe e la vita di strada – da quando ha smesso, Holmes ha accennato di “sentire la mancanza” di quella vita (4) – senza però idealizzare la dipendenza e il degrado di chi vive davvero in quel mondo. E ciò lo si vede nel personaggio di Harley, che nel ricercare il diversivo rifiutando una routine convenzionale in realtà altro non fa che ripetere ogni volta le stesse azioni. Allo stesso tempo, la vita di strada richiede una grande creatività e anche la capacità di inventarsi una drammaturgia degli eventi con pochissime risorse—una qualità che potrebbe anche descrivere l’atteggiamento dei Safdie rispetto allo storytelling: The Pleasure of Being Robbed (2008), Daddy Longlegs (2009) e The Black Balloon (2012) sono tutti film incentrati sulle routine e le idiosincrasie dei loro protagonisti e traggono ispirazione da ambientazioni cittadine molto concrete. Holmes ha paragonato l’esperienza del re-interpretare se stessa a quella di “creare qualcosa di nuovo”(5), dimostrando sia la propria capacità di scovare la novità in ogni circostanza sia il potere che ha la narrazione di porre in luce l’originale anche quando si raccontano storie già sentite.
Il racconto di Holmes, infatti, non è il solo a sviluppare creativamente schemi narrativi molto noti: Joan Didion propose il soggetto di The Panic in Needle Park come un “Romeo e Giulietta drogati” (6). Insieme a suo marito, John Dunne, la scrittrice aveva opzionato i diritti cinematografici del romanzo omonimo di James Mills, a sua volta ispirato da un reportage di LIFE magazine scritto da Mills nel 1965. Come Holmes si è cimentata per la prima volta con la scrittura di un memoir, così anche The Panic in Needle Park rappresenta il primo tentativo di Didion nel campo della sceneggiatura. Insieme a Dunne trascorsero diverse settimane all’Almac Hotel a New York per fare ricerca sulla vita quotidiana dei delinquenti e tossici che si aggiravano tra Broadway e la 72esima strada ed è lì che Didion scrisse il trattamento iniziale per il film. Dunne collaborò alla sceneggiatura, ma Didion aveva l’ultima parola sulla stesura finale. Prodotto dal cognato di Didion, Dominick Dunne e diretto da Jerry Schatzberg, il film fu un grande successo, complice anche la straordinaria performance di Al Pacino, al suo primo ruolo da protagonista.
The Panic in Needle Park comincia con un aborto, un tema affrontato spesso da Didion. Nei primi minuti Helen (Kitty Winn, miglior interpretazione femminile quell’anno a Cannes) si sente male su un affollato treno della metropolitana ma, nonostante la nausea, riesce ad arrivare nella casa-atelier del fidanzato artista e si sdraia sul divano per riprendersi. In quel momento arriva un piccolo spacciatore, venuto a trovare il fidanzato (Bobby/Al Pacino). Mentre Bobby aspetta che il fidanzato si prepari per uscire, fa due chiacchiere con Helen e le rimbocca teneramente la coperta. Nella scena successiva Helen è all’ospedale, e sta perdendo molto sangue. In seguito Bobby la va a trovare durante la sua convalescenza e pochi giorni dopo viene dimessa. Anche all’inizio di Heaven Knows What Harley viene dimessa dal reparto psichiatrico dove è stata ricoverata in seguito al tentato suicidio provocato dalla rottura con Ilya. Sebbene The Panic in Needle Park ci risparmi immagini esplicite del malessere di Helen, l’idea di ferite dolorose e sanguinanti è trasmessa in modo ugualmente vivido. In entrambi i film, gli uomini che condividono la responsabilità per il dolore e il ricovero delle loro compagne sono relegati sullo sfondo degli eventi, lasciando così che le due giovani donne appaiano come figure indipendenti invece che vittime.
Entrambe le sequenze d’uscita dall’ospedale segnano una cesura tra il passato e il presente. Il “qui e ora” è tutto ciò con cui le due protagoniste sembrano interagire: non riceviamo molte informazioni sul loro passato, e loro non esprimono preoccupazioni concrete rispetto al loro futuro. Entrambi i film rifuggono una cronologia o linearità narrativa convenzionale. In The Panic in Needle Park ciò è ottenuto attraverso inquadrature che devono molto al documentario d’osservazione e a riprese apparentemente improvvisate durante le scene violenza. Al contrario, sfruttando lenti da safari per filmare da lunghe distanze, i Safdie evitano di ripetere l’effetto da pseudo-documentario: tramite l’alternanza di close-up claustrofobici e ampie panoramiche all’aperto, Heaven Knows What distorce il senso di tempo e direzione, rispecchiando così le esperienze viziose e cicliche dei suoi personaggi. Forse anche a causa delle sue origini giornalistiche, il film del 1971 trasmette più un’atmosfera da “un giorno nella vita di”, mentre Heaven Knows What acquista la qualità di un incubo psichedelico proprio grazie alla fotografia espressionista, quasi tattile, di Sean Price Williams e alle esecuzioni di Isao Tomita, che reinterpreta composizioni di musica classica in chiave techno-elettronica. Ma al di là delle rispettive scelte stilistiche, in entrambi i film è la tragica storia d’amore il principale elemento narrativo che condensa la percezione del tempo. Harley e Ilya forse ricordano più una varante strafatta di Minnie & Moskowitz anziché la celebre coppia shakespereana citata da Didion, eppure entrambe le storie si incentrano sulla cieca dedizione di una giovane donna per il proprio uomo. Ed entrambe si dimostrano pronte a dimostrare il loro amore con azioni pericolose: se Harley si taglia le vene per riconquistare la fiducia di Ilya, Helen si inietta l’eroina per la prima volta per non rimanere esclusa quando Bobby sta avendo uno dei suoi trip più intensi.
L’intensità del primo amore è ardua da bissare, così come l’esperienza del primo trip difficilmente si può replicare: eppure sia Harley che Helen tentano in vano di ricreare entrambe le situazioni. Anche Christiane F. – Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino – noto film tedesco del 1981, incentrato sulla diffusione delle droghe nella Berlino ovest degli anni Settanta – mette in scena un simile dilemma. Il giornalista Horst Riech aveva registrato una serie di interviste con Christiane Felscherinow, adolescente eroinomane che aveva conosciuto preparando un reportage sulla criminalità e lo spaccio a Moabit (quartiere nord-ovest di Berlino). Sulla base di queste registrazioni, nel 1978 il magazine Stern aveva poi pubblicato un lungo resoconto in prima persona della sedicenne Christiane F., poi divenuto il punto di partenza per la sceneggiatura del film. Diretto da Uli Edel, Christiane F. uscì nel 1981, presentando per la prima volta sul grande schermo Natja Brunckhorst nel ruolo della protagonista. A differenza di Panic e Heaven, Christiane F. non gioca con la circolarità: il film attraversa cronologicamente diversi anni e lo fa in modo convenzionale, pur rappresentando temi che all’epoca causarono scandalo. Appena tredicenne, Christiane sniffa cocaina per la prima volta dopo aver visto Detlef, il ragazzo che le piace, in compagnia di un’altra ragazza al concerto di David Bowie. Ore dopo, Detlef la rimprovera per aver sperimentato con la droga, aggiungendo però, “Figo, vero?”, infine baciandola. Da quel momento in poi i due saranno inseparabili.
Nonostante le differenze, tutti e tre i film sembrano soffermarsi sullo stesso interrogativo: è possibile che storie di dipendenza femminile siano comprensibili solo quando vengono accostate a storie d’amore? Se da una parte non tutti gli spettatori possono condividere l’esperienza della droga, il desiderio di amore e vicinanza delle protagoniste è un impulso che tutti conoscono. Heaven Knows What è un film che non giudica e che, nel ritrarre sia la vita di strada sia la coppia al centro di essa, è notevole proprio perché instaura il perfetto equilibrio tra immersione e distanza dal suo soggetto. A unire gli estremismi di amore e autodistruzione è proprio l’interpretazione di Harley/Holmes, toccante nel suo essere così incredibilmente naturale. Quando i due si riconciliano, in preda a un guizzo d’entusiasmo, Ilya lancia in cielo il cellulare di Harley e questo si trasforma in fuochi d’artificio – una breve esplosione fantastica che ci ricorda come già dall’orso animato di The Pleasure of Being Robbed alla gigantesca zanzara di Daddy Longlegs, i fratelli Safdie amino mescolare il realismo con il fantastico. Quando il cellulare esplode in mille scintille, Ilya indica i fuochi e grida: “Questo è divertente! Questo è divertente”. Per un istante, allo spettatore è permesso vedere la realtà attraverso i loro occhi, ed è una realtà dove l’amore – insieme alle droghe – funziona come una sorta di grimaldello magico per la sopravvivenza e comprensione del mondo.
Ma oltre a esplorare i punti di contatto tra uso di droghe e fantasie romantiche, Heaven Knows What, The Panic in Needle Park e Christiane F., sfruttano anche l’uso di droghe e la dipendenza come ingresso “velocizzato” alla vita adulta, come acceleratori del racconto di formazione. Il desiderio di allontanarsi da situazioni problematiche, di farsi valere nel mondo, di appartenere a un gruppo e trovare un compagno con cui condividere, banalmente, il peso dell’esistenza, sono tutte spinte che rappresentano in qualche modo una contorta voglia di diventare grandi. E allo stesso modo, le voci femminili che informano queste storie è come se condividessero la medesima interpretazione della dipendenza; le loro vicende evitano di glorificare l’aspetto ricreativo dell’abuso di sostanze (al contrario, il rapporto delle tre ragazze con la dipendenza le espone a crisi esistenziali cruciali, e cioè a occasioni di crescita che altrimenti non esperirebbero), e le loro concezioni di casa, famiglia e relazione amorosa non sono retrograde né convenzionali. Helen, Christiane e Harley vogliono avere una seconda chance nei loro legami affettivi – l’opportunità di riprendersi dalle angosce domestiche – e nonostante le tragiche circostanze, rimangono fedeli ai propri compagni. La loro responsabilità individuale determina il loro ruolo nel mondo, e proprio per questo le loro scelte sono da vedersi in senso liberatorio.
Se in The Panic in Needle Park e Christiane F. questa emancipazione è semplicemente accennata, la protagonista di Heaven Knows What riesce a raccontare e interpretare la propria storia e quindi, soprattutto, a cambiarla. Durante le riprese Holmes aveva interrotto il consumo di eroina ma era sottoposta al trattamento col metadone. Oggi è pulita. Intervistata sulla sua esperienza in comunità, si dice in disaccordo con la definizione di dipendenza condivisa dai medici: e cioè quella di una malattia cronica che perseguita gli ex-tossici per il resto dei loro giorni: “Credo che non sia una malattia, ma un disturbo dell’apprendimento” (7). La sua posizione sul tema della dipendenza vede le droghe come un metodo educativo che, sebbene in modo “disturbato”, crea le circostanze per nuove esperienze e, di conseguenza, soluzioni per la sopravvivenza. E così per Holmes, fare e guardare il film di cui è protagonista ha significato guadagnare molta consapevolezza di se stessa. Forse con più successo di qualsiasi terapia tradizionale, il film le ha offerto un ponte tra la sua condizione passata e quella presente, permettendole di tradurre singoli episodi in un personalissimo unicum narrativo. E come era successo allo spettatore nella scena dei fuochi d’artificio, Heaven Knows What è diventato, per lei, la connessione magica tra esperienza e comprensione.
(testo originariamente pubblicato su cléo, riprodotto per gentile concessione dell’autrice e degli editori)
NOTE
[1] Natalia Guevara, “Discovery: Arielle Holmes,” Interview Magazine, 6 ottobre 2014.
[2] Amy Larocca, “The Star on the Sidewalk,” Vulture, 21 maggio 2015.
[3] Ryan Lattanzio, “How the Safdies Made Verité Drug Drama ‘Heaven Knows What’ with a Real-Life Ex-Junkie,” IndieWire, 27 maggio 2015.
[4] Larocca, “The Star on the Sidewalk.”
[5] Guevara, “Discovery: Arielle Holmes.”
[6] Tracy Daugherty, The Last Love Story: A Biography of Joan Didion, New York: St. Martin’s Press, 2015, p. 267.
[7] Larocca, “The Star on the Sidewalk.”