Questo libro nasce da un’esperienza e da un’esigenza.
L’esperienza, personale, è iniziata con Pietro Marcello (La bocca del lupo, 2008), allargandosi poi ad altri autori: Alina Marazzi (Tutto parla di te, 2012); Gianfranco Rosi (Sacro Gra, 2013 e Fuocoammare, 2016); Davide Maldi (Frastuono, 2014), Roberto Minervini (Louisiana, 2015), ancora Marcello (Bella e perduta, 2016). Attraverso un percorso in ambito produttivo strutturato nel tempo, chi scrive ha potuto testimoniare il farsi di un film, accrescendo un bagaglio cinematografico che prima di allora era solo teorico e critico.
L’esigenza, invece, consiste nel provare a dare delle risposte alle molte domande, pratiche e teoriche, generate dal lavoro sul campo, attraverso un’inchiesta realizzata con la complicità di alcuni degli autori sopra citati e di altri a loro vicini per metodi e idea di cinema.
I dieci registi intervistati in questo libro sono il frutto di una selezione discrezionale e non esaustiva, guidata da un criterio – esplicitato dal titolo del libro: L’invenzione del reale – suggestivo ma problematico, che assume come canone l’ibridazione tra realtà e finzione, tra documentario e drammaturgia, tra documento e narrazione in un impasto linguistico dallo statuto ambiguo. Sono autori che partendo dal reale sono riusciti, con diverse gradazioni, a trascenderlo, proponendo un cinema innovativo che prova a dire chi siamo, cosa facciamo e dove stiamo andando. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: questi film, nati al di fuori dei canali consueti di produzione e distribuzione, hanno rinnovato il cinema italiano degli ultimi anni, portando all’attenzione dei festival internazionali, della critica e ora anche del pubblico un “altro cinema”. La storia di questo cinema – documentario, sperimentale, ibridato – non inizia oggi. Ha dei maestri riconosciuti (tra i quali: De Seta, Grifi, Gianikian-Ricci Lucchi, Piavoli, Gioli, Mangini, Di Gianni), ha dei precursori (Pannone, Di Costanzo, Incalcaterra), delle comete di riferimento (Franco Maresco, da solo e con Ciprì) e degli iniziatori.
Non è un caso che per la nostra “nuova onda”, il documentario di narrazione e il cinema del reale siano stati il banco su cui provare le pratiche e cercare le poetiche che hanno portato a definire questo nuovo “altro cinema”. Altro perché non è semplicemente documentario, né solamente di finzione, ma neanche banalmente “docufiction”. Ci riferiamo a quei film che hanno il reale come metodo, fonte, ispirazione, baricentro, cornice, sviluppo e la drammaturgia come linguaggio, narrazione, racconto, storia e ancora sviluppo. Nella loro macchina cinema, il reale – come fosse una materia – viene alterato, piegato, modellato e trasformato in nuove forme di narrazione. C’è chi usa pochi strumenti, rimanendo aderente alla materia prima, chi ne usa molti fino quasi a farne perdere le tracce.
Nel dialogo con i registi, abbiamo provato a restituire i diversi gradi di questo spettro, rappresentati dall’ordine in cui appaiono le interviste. Un criterio criticabile ma possibile, che segue una forte suggestione. Più vicini alla materia del reale sono registi come Gianfranco Rosi e Roberto Minervini. Il percorso di Rosi è quasi enigmatico, se si considera il suo esordio in bianco e nero da “cinema diretto” con Boatman, su un barcaiolo di Benares, fino al “racconto di formazione” di Fuocoammare, con un bambino nella Lampedusa dei flussi migratori. Roberto Minervini, al contrario, parte da esperienze più “a soggetto” (The Passage e Low Tide), sempre attraversate da un forte “lì e allora”, per tuffarsi in luoghi e situazioni dense di realtà e verità in un continuo scambio tra rappresentazione e narrazione (Stop the Pounding Heart), fin quasi al pamphlet socio-politico (come nei para-militari di Louisiana).
Per Alina Marazzi il reale è documento, testo, archivio (Un’ora sola ti vorrei, sulla sua storia familiare e Vogliamo anche le rose, sul movimento femminista italiano, dove il repertorio diventa drammaturgia emozionale) oppure è materia prima su cui costruire un’inchiesta narrativa altamente ibridata (Tutto parla di te, sul sentimento ambivalente nella maternità). Per Pietro Marcello, anch’egli toccato dal fascino dell’archivio, il reale è: “figure del paesaggio” in una geografia ideale (Il passaggio della linea, viaggio dalla notte all’alba sugli ultimi treni espressi); “figure della memoria” in un melodramma francese (La bocca del lupo, cronaca di una città e di un amore attraverso repertori storici e archivi personali); “figure della favola” in un’inchiesta ambientale (Bella e perduta, viaggio in Italia tra Pulcinella e un bufalo sullo sfondo reale della terra dei fuochi e della morte del vero Angelo di Carditello).
Per Frammartino e Columbu il reale è fatto di terra, cielo, rocce, volti, capre, asini e altri animali.
Nel Dono il volto del nonno calabrese di Frammartino viene filmato come un paesaggio (il volto rugoso, il corpo nodosissimo come le colline di Caulonia), nelle Quattro volte e Alberi invece l’umano gradualmente scompare lasciando lo spazio agli animali, agli oggetti e alla natura nei suoi quattro elementi. Anche di tutto questo è fatto il cinema di Giovanni Columbu il cui ultimo Su Re, la Passione di Cristo in terra e lingua sarda, è un esempio strabiliante di come sia possibile prendere sassi e vento e trasformarli in un racconto evangelico.
Stiamo camminando su un filo nel seguire questo ordine, ma il reale sta facendo il suo corso: da esperienza, documento, elemento fortemente narrati si passa a forme di racconto sempre più intenzionali. Comodin, Di Costanzo e Rohrwacher disegnano questa linea. L’estate di Giacomo, esordio di Comodin, è un leggero peregrinare tra le emozioni e i sentimenti di due adolescenti (personaggi reali) pedinati sulle rive del Tagliamento. Leonardo Di Costanzo, dopo anni di militanza nel documentario, sul banco del suo personale laboratorio tra metodo, insegnamento e storie di strada, ha sperimentato il “film a soggetto”: L’intervallo (storia di un ragazzo e una ragazza “imprigionati” in una scuola abbandonata). Per Alice Rohrwacher il reale diventa uno spazio emblematico, fonte di ispirazione sociale (Corpo celeste) e biografica (Le meraviglie), intrisa di geografia e orografia, tra la Calabria e l’Umbria natia. Con il suo metodo e sguardo la realtà subisce una sublimazione, diventando a tratti scorcio naïf, fiaba.
A chiudere questo spettro c’è Matteo Garrone, che in verità è stato l’iniziatore di questa stagione. Il reale, soprattutto nei suoi primi film, è spunto plastico e pittorico (Silhouette è del 1996), biografico (Ospiti) o elettivo (Estate romana), comunque una base sulla quale erigere un immaginario altro, fino a Reality, quasi film-essay sul rapporto tra realtà e finzione, che approda addirittura al fantastico. Altri autori avrebbero perfettamente interpretato il “canone” qui espresso, perché lo hanno anticipato, frequentato, determinato. E la loro esperienza avrebbe arricchito il discorso. Mi riferisco in particolare a Daniele Gaglianone (Pietro e La mia classe), Alessandro Rossetto (Piccola patria) e Salvatore Mereu (Bellas mariposas), ai quali ci dedicheremo, casomai in un secondo volume. Nel quale rientrerebbero anche Alberto Fasulo, Andrea Segre, Claudio Giovannesi, Giovanni Piperno, Agostino Ferrente, Stefano Savona. Un discorso a parte, allargando lo spettro, meriterebbero Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, che stanno portando avanti un’idea di cinema documentario raffinatissima e sperimentale.
Per chiudere, ma fondamentale: questa mappatura non è incentrata sulla “politica degli autori”; in queste interviste si parla poco di poetiche, a queste – e a una loro miglior comprensione – ci si arriva semmai attraverso la “politica del metodo”, perché in questo cinema, e non solo, il metodo influenza l’estetica, il percorso sancisce il risultato, il come determina il cosa, gli attrezzi fanno il pezzo finale…
(il testo qui riprodotto è l’introduzione del volume L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema di Dario Zonta [Contrasto, 2017]; pubblicato per gentile concessione dell’autore e dell’editore)