A fábrica de nada (titolo internazionale The Nothing Factory) è un film di sopravvivenza. Un film sulla sopravvivenza fatto con chi cerca di sopravvivere alla crisi permanente in quanto modello di dominio, come rivendicato nella stessa nota di regia e come già diceva Giorgio Agamben. Quasi di dittatura soft, aggiungiamo noi. Pieno di passione nel rappresentare conversazioni politiche altrettanto appassionate, di questo tempo e insieme d’altri tempi, inventivo e fantasioso nel giocare, per esempio con il musical, e nel mescolare, nell’ibridare i registri cinematografici più diversi seguendo le gesta di un gruppo di operai di una fabbrica occupata di Lisbona. Il portoghese Pedro Pinho, giovane regista al suo secondo lungometraggio di finzione (alle spalle due doc e tre corti), molto attivo nella produzione e promozione del nuovo cinema portoghese, realizza un film che riesce a dire ancora qualcosa di bello, forte e perfino nuovo nell’ibridare fiction e documentario e perfino ad avere una sua autonomia rispetto al trittico capolavoro di Le mille e una notte di Miguel Gomes, presentato nel 2015 alla Quinzaine des réalisateurs proprio come il film di Pinho (e il cui progetto prese il via quasi in simultanea con quello di Gomes).
Meglio localizzarsi come individui, in quanto singolarità di una collettività che i processi capitalistici, operando come un rullo compressore, depauperano o addirittura disintegrano, piuttosto che accettare passivamente una delocalizzazione, una delle tante in Portogallo come in Italia, in Spagna come negli Usa, in Francia come in Argentina. Un paese, quest’ultimo, dove l’esperienza delle fabbriche chiuse per via della globalizzazione dell’economia ha dato il via, a suo tempo, a una quantità altissima di occupazione di queste fabbriche da parte degli operai che le hanno poi riprese in mano. Ed è anche qui il caso: pieno di autoironia e paradossi, l’umorismo di cui si percepisce l’artificio è quello di situazioni che si percepiscono come ben reali, si (con)fondono tra loro, come quando nei colloqui con l’amministrazione gli operai/esseri umani dismessi devono decidere come e quando prendersi gli ultimi soldi, come e quando suicidarsi. Una liquidazione per auto-liquidarsi. Il sistema economico della globalizzazione sembra infatti funzionare adattando all’epoca moderna antichi assiomi: panem et circenses – i cui giochi circensi possono essere oggi l’ossessione compulsiva per il nuovo telefonino e i suoi micro-gadget: sulla forza obnubilante di questi micro-luna park, e di tutto un armamentario delle tecnologie del levigato e dei colori saturi, il regista Jia Zhang-ke ha fatto uno dei perni del suo cinema – e divide et impera. E qui siamo nel film di Pinho.
In realtà il discorso, sia cinematografico che politico-ideologico, è un vecchio che si fa nuovo, riflettendo in qualche modo il successo di politici anziani (ma dai modi e dall’energia giovanili) quanto anomali come lo statunitense Bernie Sanders o il britannico Jeremy Corbyn (il vecchio), un successo che ha le sue fondamenta prima di tutto tra i giovani (il nuovo) che si credeva per sempre perduti a un discorso ideologico e sociale stando alla litania liberista orchestrata per anni da quasi tutti i quotidiani d’opinione e da quasi tutti i grandi organi d’informazione e che invece non sembrano più dare ascolto proprio a questi media da loro dismessi (forse anche troppo), perché visti come ormai paludati e allineati.
Sono loro, le persone qualunque che un giorno saranno o sono già operai oppure lavoratori di un call-center, pony express delle pizze, camerieri o quant’altro (che abbiano studi superiori alle spalle o meno), e che qui diventano personaggi. È uno dei meriti principali del film, uno dei suoi aspetti più belli. Tra le tante persone-personaggi spicca quella che è forse la figura principale: un giovane operaio con fidanzata brasiliana, un po’ rocker trasgressivo e dalla festa facile. Ma tra un balletto-musical e l’altro entra in scena il cinema nel cinema, nella figura del regista Daniele Incalcaterra, uomo di mezza età, barbuto e dalla presenza massiccia, quasi un cliché del regista-intellettuale vecchia maniera.
Il cinema nel cinema viene rovesciato nella realtà documentaria: la realtà nel cinema e al contempo nella realtà del cinema, vale a dire nella forza dell’arte. Più esattamente nella forza dell’arte principe nella rappresentazione del reale. E torniamo al cinema. Questa splendida fabbrica del niente, verte sul rovesciamento, sul ribaltamento degli assiomi. L’arte è inutile per definizione. Al contrario non solo del prodotto industriale ma anche di quello artigianale che deve avere una sua utilità se non pratica quanto meno decorativa (elemento che può riguardare a volte anche l’opera d’arte, ma in maniera accessoria). Nel rovesciare la logica liberista con fare anarchico, il niente della fabbrica – fino a poco prima produttrice di “utili” ascensori – che si cerca di annientare (perché inutile) diventa il tanto, o il tutto, che creerà forse un nuovo mondo, certamente nuove piste per provare a farne uno nuovo. Reinventando il vecchio con il nuovo e viceversa. E il nulla – inutile presunto – diverrà invece un (nuovo) inizio. Perché in tutto quello che è inutile c’è forse tutto quello che è importante per noi, per la nostra comunità.
Pinho e il suo collettivo di co-autori affermano nel film, Marx insegna, che se non è più l’operaio a impiegare i mezzi di produzione saranno quest’ultimi a impiegare l’operaio. Da qui l’auto-collettivismo raccontato nel film dove si rovesciano tutte le logiche di crisi: da quelle interiori a quelle economico-sociali, da quelle politiche a quelle artistiche. Perché il perdurare dello stato di crisi, ansiogeno, figlio della paura continua, si rivela in pieno instrumentum regni di una logica di oppressione, creando uno stato della mente di perpetua remissione, rassegnazione, apatia, quando non di vero e proprio annichilimento.
A fábrica de nada salda tra loro l’inutilità dell’arte, le fabbriche (ritenute) inutili e infine gli esseri umani (ritenuti) inutili, in un film a comparti che si mescolano, rovesciando il concetto rigido di comparto industriale per farne al contrario una forma morbida di comparti opposti tra loro ma che s’incastonano con naturalezza l’uno nell’altro, una fabbrica della nuova Utopia – arrabbiata e gioiosa, caotica e umana – dove, salendo i diversi piani come in un ascensore, coabitano tante, molteplici, infinite varianti di un inutile nulla che può trasformarsi in un Tutto. Utile, forse essenziale, per tutti.