«Tu, quando ti capita qualcosa, sai subito se è una cosa bella o una cosa brutta?» chiede Mia, sguardo stranito incorniciato da un cespuglio di capelli rosa, a un titubante Paolo, combattuto tra un misto di tristezza, stupore e curiosità. Si nasconde in questa domanda il cuore del film di Fabio Mollo (Il Sud è niente): a metà strada tra commedia sentimentale, melodramma famigliare e racconto di fuga, Il padre d’Italia si muove lungo un processo di decomposizione e ricostruzione sentimentale.
Paolo (Luca Marinelli) è un ragazzo malinconico e inquieto: lavora in un negozio di mobili, ma avrebbe voluto fare il falegname. Il fidanzato l’ha lasciato dopo otto anni quando ha capito che Paolo – per paura, per indecisione, anche per pregiudizio – non avrebbe mai costruito con lui una famiglia vera. È nel groviglio di sguardi languidi e corpi tesi di una dark room che Paolo incontra Mia (Isabella Ragonese): dentro una giacca pacchiana da vecchia madonnara, un po’ fatta e malandata. E incinta. Così, dopo il Pronto Soccorso e qualche occhiata storta, le loro solitudini sembrano non poter più fare a meno l’una dell’altra. La follia di Mia, la sua esuberanza, le ripetute bugie e gli scatti di disperazione, la sua ostentata e anarchica maternità spingono Paolo finalmente “fuori dall’armadio” della sua quotidianità depressa, lo strapazzano, lo innamorano e lo trascinano lontano, per riportarlo infine di fronte a se stesso: esausto, confuso, svuotato, rinato.
Questo secondo lungometraggio di Fabio Mollo vive di piccole storie, miniature di uno spaccato più ampio, universale: il mondo intero in una suggestione e, sullo sfondo, Una giornata particolare di Scola. Lo slancio è interamente sostenuto dal rapporto tra Marinelli e Ragonese che, nonostante sfiorino ripetutamente il rischio di una resa grottesca e caricaturale, sono comunque capaci di scontornare i tratti di un’umanità contraddittoria, alla ricerca di un approdo.
La forza del montaggio, affidata a Filippo Montemurro, sostiene come un puntello regia e sceneggiatura, grazie alla continua alternanza di ambienti (i colori acidi dei flash nelle discoteche di Torino, i grovigli metropolitani di Roma e Napoli, le placide campagne della Calabria) e primi piani stretti, il riverbero azzurro dello sguardo di Marinelli, le labbra rosse della Ragonese, le lacrime trattenute, lo stupore improvviso, l’attesa, il pancione nudo in controluce, il rancore di una madre ostile e il ricordo di una madre perduta. Quadri potenti che illuminano un percorso irregolare e spesso incerto, che incespica su se stesso, rallenta, si ripete, per poi accelerare d’un tratto sul finale, tra svelamenti del passato e una nuova, inattesa aurora: «contro natura», dice Mia «… come i miracoli».
Il padre d’Italia è fatto col cuore e con passione politica: non è un tipico film “a tematica lgbtq”, ma interviene emotivamente – e positivamente – nell’attuale dibattito culturale e nella mai vinta battaglia contro pregiudizi e preconcetti, aggredendo dubbi, resistenze e perfino quei cliché a cui lo stesso autore, accortamente, non manca di attingere nella costruzione dei luoghi, delle vicende e dei personaggi del film: far propri i luoghi comuni per destrutturarli.
Tra i rimpianti, le memorie e le impreviste scoperte, è la voce bruciata della Bertè, resuscitata da una vecchia musicassetta, a completare la tenerezza di questi amori fragili: «Mare mare / Qui non viene mai nessuno a trascinarmi via / Mare mare / Qui non viene mai nessuno a farci compagnia / Mare mare / Non ti posso guardare così / Perché questo vento agita anche me».