Nell’opinione comune, o almeno di coloro che ancora ne ricordano il nome, Stanley Kramer è stato il regista e/o il produttore engagé per antonomasia nella Hollywood degli anni Cinquanta e Sessanta. Al suo attivo, titoli come La parete di fango (The Defiant Ones, 1958), …e l’uomo creò Satana! (Inherit the Wind, 1960), Vincitori e vinti (Judgment at Nurenberg, 1961), Indovina chi viene a cena (Guess Who’s Coming to Dinner, 1967). Quasi tutti immancabilmente oscarizzati e quasi tutti premiati dal pubblico, nonostante il sarcasmo della critica, anche di quella più liberal (Bosley Crowther li definiva «oversized potboilers»). Un’antipatia probabilmente dovuta, secondo Guido Fink – uno dei pochissimi, almeno in Italia, ad aver dedicato al regista newyorkese un’attenzione prolungata – all’innegabile propensione di Kramer per l’oratoria, i “grandi temi”, i “messaggi” [1]. Non era comunque soltanto la critica a manifestare una certa insofferenza di fronte alle pesanti allegorie del regista. Parlando con Peter Bogdanovich della possibilità di sfruttare il simbolismo per veicolare dei concetti, Orson Welles citava proprio Kramer a mo’ di esempio negativo: «La vita è piena di simboli. Così è l’arte. Non si possono evitare; ma se li usi, finisci a Stanleykramerlandia» [2].

Perché un tipo come Kramer dovrebbe allora mettersi a girare un film comico, e per di più di chiara intonazione farsesca, come Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo? È quello che nel 1963 si domandano in molti. A cominciare proprio da Fink, che, mentre il film è ancora in lavorazione, scrive: «It’s a Mad Mad Mad Mad World sarà comunque una brusca svolta nella carriera di Kramer, che finora si è distinto per una totale mancanza di umorismo nei suoi film» [3]. D’altra parte, non bisogna dimenticare che Kramer è anche un oculato produttore, e di sicuro ha ben presenti le possibilità commerciali del soggetto. Dalla fine degli anni Cinquanta, infatti, la slapstick comedy conosce una sorta di revival. L’odiata nemica delle Majors, la televisione, rimpingua i palinsesti con i vecchi two reels, trasmettendo senza interruzione le comiche di Laurel e Hardy e dei tre Stooges. Non solo: Buster Keaton è spesso ospite di trasmissioni televisive, nonché interprete di spot pubblicitari; mentre Groucho Marx conduce il fortunato quiz You Bet Your Life per undici stagioni consecutive (1950-61). Anche l’Academy sembra ricordarsi dei comedians ormai in pensione, e, uno alla volta, li premia con un attestato alla carriera che è quasi un riconoscimento alla memoria: nel 1952 tocca a Harold Lloyd, nel 1959 a Keaton, nel 1961 a Laurel (rimane fuori Chaplin, ancora in odore di comunismo: ci penserà la New Hollywood a rimediare, dieci anni più tardi). Infine, a dimostrazione della pervasività del fenomeno, nei cinema hanno grande successo le antologie curate dal collezionista Robert Youngson, da Cavalcata della risata (The Golden Age of Comedy, 1957) a Parata dell’allegria (When the Comedy Was King, 1960) ed Emozioni e risate (Days of Thrills and Laughters, 1961); sulla stessa falsariga il veterano Lloyd compila nel 1961 la silloge autoantologica Il mondo di Harold Lloyd (Harold Lloyd’s World of Comedy).

Il momento è propizio, insomma. Kramer acquista così una sceneggiatura scritta un paio d’anni prima da William Rose (già autore, nel 1955, de La signora omicidi) e da sua moglie Tania, e decide di ricavarne (parole sue) «la più gigantesca commedia che sia mai stata realizzata» [4]. Sei milioni di dollari di budget, quattrocento (!) pagine di copione, sei mesi di lavorazione fra il deserto californiano e l’area metropolitana di Los Angeles (Santa Monica, Woodland Hills, Twentynine Palms, Long Beach…), filmati in Ultrapanavision 70; tre ore e mezzo di durata nella versione roadshow, oltre cento interpreti con almeno una battuta, un titolo chilometrico. Lo scialo di risorse, puntualmente sottolineato da un efficace lancio pubblicitario, è ampiamente ripagato. Non solo Questo pazzo, pazzo… è un grande successo (terzo maggiore incasso del 1963 sul mercato nordamericano), ma diventerà anche un prototipo. Un paio d’anni dopo, nel 1965, escono infatti lo sfortunato La grande corsa (The Great Race) di Blake Edwards (che dal cast del film di Kramer riprende Peter Falk e Dorothy Provine) e il fortunatissimo Quei temerari sulle macchine volanti (Those Magnificent Men in Their Flying Machines), produzione anglo-internazionale diretta da Ken Annakin (nella quale ritroviamo invece Terry-Thomas).

Eppure, Questo pazzo, pazzo… lascia nonostante tutto un’impressione di fatica, di pesantezza, di palese ritardo sui tempi. Questione di durata, si dirà, o forse di ritmo. Può darsi. La verità è che siamo alla vigilia della morte di JFK (la “prima” del film si svolge il 7 novembre 1963, appena due settimane prima dei fatti di Dallas) e nuove inquietudini si lasciano intravedere all’orizzonte: come ha notato Lou Lumenick, è significativo che l’uscita di questo omaggio alla vecchia Hollywood rivolto ai ragazzini degli anni Sessanta coincida con il momento in cui il “gap” fra i baby boomers e la generazione dei padri incomincia drammaticamente ad allargarsi [5]. È dunque con una certa coerenza che, in questa delicata congiuntura, Kramer e Rose intendono realizzare «la commedia che metterà la parola fine a tutte le commedie», una sorta di immensa enciclopedia delle situazioni comiche, dall’inseguimento allo slow burn. Nei fatti, però, non vanno oltre una diligente riproposizione/omaggio di alcuni luoghi canonici della slapstick. E per capire il ritardo di Questo pazzo, pazzo… non solo rispetto al proprio tempo, ma anche rispetto al genere di riferimento è sufficiente guardare a ciò che negli stessi anni stava facendo il Jerry Lewis regista (peraltro convocato da Kramer per un cammeo muto): effetti di svelamento, rivisitazione dei topoi del comico, messa in scena/scardinamento delle convenzioni del linguaggio cinematografico. E su questa linea si muoveranno, dopo il commercialmente disastroso tentativo di emulare Kramer, anche gli esiti migliori di Blake Edwards, a cominciare da Hollywood Party (The Party, 1968). Kramer rimane insomma all’interno di un paradigma ancora classico, senza rendersi conto che per raccontare i tempi nuovi non basta rinverdire i fasti di una gloriosa tradizione, ma occorre proprio un nuovo linguaggio.

C’è poi la questione, accennata all’inizio, della retorica, del “messaggio” calcato quasi a forza nella trama. Kramer ci scherza su: «È un film senza messaggio», dice. Ma si corregge quasi subito: «Se non forse che tutti noi, in certe condizioni, possiamo venire a compromessi con la nostra onestà». Da parte sua, Rose rincara la dose: «È un film sull’avidità». Di qui l’abbondanza di gag e battute “spiegate”: Terry-Thomas che pontifica a gran voce contro il matriarcato americano (ben rappresentato dalla virago Ethel Merman, suocera tirannica e madre castratrice), neanche si fosse sciroppato tutto Amore e morte nel romanzo americano (il saggio di Leslie Fiedler è del 1960);  l’immagine allegorica delle banconote disperse al vento; il pistolotto finale sull’importanza della risata, che sembra prelevato di peso da I dimenticati (Sullivan’s Travels) di Preston Sturges – il  quale, però, lavorava negli anni Quaranta, operando uno svelamento critico del linguaggio hollywodiano che non aveva eguali, all’epoca. Insomma, Kramer ha letto troppi libri e ha troppe preoccupazioni “democratiche” (sulle quali peraltro è anche in grado di ironizzare: il tassista black sbalzato nel finale in braccio alla statua di Lincoln) per lasciarsi andare a un riso che sia autenticamente sovversivo.

L’autentico fil rouge di Questo pazzo, pazzo… finisce allora per essere il binomio morte-vecchiaia. Guarda caso, il film inizia con un incidente mortale, quello del vecchio Jimmy Durante (nei panni dell’ex rapinatore di banche Smiler Grogan), che vola fuori strada con la sua auto, rotolando giù per una scarpata. La sua comica agonia sul ciglione della strada, i singulti con cui comunica ai primi soccorritori l’ubicazione del suo favoloso tesoro, soprattutto il calcio che sferra prima di tirare le cuoia, rappresentano un po’ la morte della vecchia slapstick; e i numerosissimi cammei di “vecchie glorie” disseminati lungo tutto il film (ZaSu Pitts, i tre Stooges, Edward Everett Horton, Buster Keaton, Joe E. Brown) ne sono soltanto il prolungamento, una specie di postilla testamentaria. È curioso, anzi, che questa chase comedy sia interpretata perlopiù da stand-up comedians, mentre i divi del vecchio burlesque vengono relegati sullo sfondo. Sid Caesar, Milton Berle, Phil Silvers, Buddy Hackett: praticamente il gotha della comicità ebraica prima dell’avvento di Woody Allen e Mel Brooks. Anche questo, se vogliamo, è un segno dei tempi.

Il colorato vitalismo del film si tinge di nero, il bisogno di fuga a cui tutti i personaggi si abbandonano è quasi un modo per sottrarsi alla fine imminente. Ed è proprio Spencer Tracy, nei panni del capitano Culpepper, a incarnare meglio di chiunque altro la sottile vena di mestizia che attraversa il film dall’inizio alla fine. Oppresso dalla moglie e dalla figlia, in attesa da anni di uno scatto pensionistico che non arriva mai, anziano e fragile (Kramer gli concede alcuni splendidi, per quanto impietosi, primi piani), Tracy/Culpepper si lascia infatti corrompere dalla febbre dell’oro e getta alle ortiche la sua integrità. Il fatto è ancor più interessante se pensiamo che Tracy è l’attore-feticcio di Kramer, la perfetta raffigurazione della vecchia, buona, sinceramente democratica America, salda nei propri principi ma aperta al nuovo (quello che Fink ha definito «puritanesimo laico»[6]). Al personaggio sembra, a tratti, sovrapporsi l’interprete: nella sequenza conclusiva in ospedale, dopo che tutti i protagonisti sono precipitati da una scala antincendio nel tentativo (vano) di accaparrarsi il denaro di Grogan, Buddy Hackett immobilizzato dall’ingessatura si lamenta del fatto che «lui [Tracy] voleva rubarci la scena!». Una battuta che sembra racchiudere il destino di Tracy, interprete plurioscarizzato ormai vecchio e malato, che porta su di sé i segni della decadenza di quel cinema che Kramer insiste a voler fare. In effetti, dopo Questo pazzo, pazzo… l’attore interpreterà soltanto Indovina chi viene a cena (un’altra regia di Kramer) e morirà pochi giorni dopo la fine delle riprese.

Artisticamente parlando, Kramer non sopravviverà alla scomparsa del suo primattore. Troppo giovane (era nato nel 1913) per ritirarsi in buon ordine insieme ai “vecchi” Ford, Hawks, Walsh; troppo fiducioso in un sistema al collasso per traslocare senza problemi armi e bagagli nell’incipiente New Hollywood (a differenza, per esempio, dei coetanei Fuller, Ray e Aldrich). Abbandonato il cinema nel 1979, Kramer muore nel 2001, sulla soglia dei novant’anni. La migliore definizione di lui, ancora una volta, l’ha data Guido Fink: «Un professionista serio, che ama il suo mestiere e lo fa onestamente […]. Può continuare a dirci cose interessanti ma non le dirà mai in modo da rivoluzionare il mondo […] come uno di quei professori “aperti” e coraggiosi che ciascuno di noi deve avere, al ginnasio o al liceo, almeno per una “supplenza” […]. Anche se il resto del mondo pencola, oscilla, precipita, Stanley Kramer rimane saldo e diritto»[7]. Ci rimangono i suoi film, amabili dinosauri che, infarciti di spot, allietano grandi e piccini nei lunghi pomeriggi delle domeniche invernali.


NOTE

[1]    Cfr. Guido Fink, Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano, Marsilio, Venezia, 2001, p. 194.

[2]    Orson Welles, Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Orson Welles, Il Saggiatore, Milano, 2016, p. 139.

[3]    Guido Fink, Stanley Kramer: la democrazia come spettacolo, in “Cinestudio. Quaderni del circolo monzese di cinema”, n. 6, s.l., s.d. [ma 1962], p. 17.

[4]    Tutte le dichiarazioni di Kramer e quelle dello sceneggiatore William Rose sono tratte da Fink, Stanley Kramer: la democrazia come spettacolo, op. cit., pp. 16-17.

[5]    Cfr. Lou Lumenick, It’s a Mad, Mad, Mad, Mad, Mad World. Nothing succeds like excess (dal blog della Criterion Collection).

[6]    Fink, Stanley Kramer: la democrazia come spettacolo, op. cit., p. 22.

[7]    Id., p. 25.