Ozon punta alla De Palma d’Oro, ha ironizzato qualcuno, sottolineando gli evidenti debiti del suo nuovo film nei confronti del regista di Le due sorelle, Femme Fatale e Passion. L’amant double, proposto ieri in concorso a Cannes, riprende sin dal titolo in maniera esplicita il tema del doppio e le sue implicazioni nel campo del desiderio, articolando in un thriller a sfondo erotico una relazione a tre in cui si moltiplicano le spinte pulsionali e le rifrazioni del sé. Perno della narrazione è la seducente Chloe (Marine Vacht, lanciata dal regista nel 2013 con Giovane e bella): afflitta da costanti dolori allo stomaco di cui non riesce a scoprire la causa, si rivolge a uno psicologo (Jérémie Renier) che non solo l’aiuta a sciogliere alcuni dei suoi nodi esistenziali ma se ne innamora e la accoglie nella propria vita. Tutto fila liscio finché la ragazza non incappa in un sosia del compagno, meno comprensivo ma capace di soddisfarla sessualmente come l’altro non è in grado di fare. Da qui in avanti la faccenda si complica, con la scoperta del passato misterioso dei due uomini, intimamente legati, e la tragedia di un’altra giovane – inutile dirlo: assai simile alla protagonista – finita preda dello stesso meccanismo.
L’intrigo si risolve in un softcore psicanalitico dove tutto è abbastanza chiaro fin dall’inizio e ciò che non lo è a sufficienza viene spiegato alla fine. Lo stile è poco raffinato, e la regia fa un ricorso costante a specchi e scale a chiocciola, prendendo una piega sleazy in grado di solleticare tutti coloro che si sentono orfani di un certo tipo di thriller osé, di matrice hitchcockiana, poi argentiana (ma – senza che ciò debba essere considerata un’offesa per nessuno – a chi scrive, nel corso della visione, continuavano a tornare in mente i gialli di Sergio Martino…) e infine depalmiana e verhoeveniana. I nudi abbondano, le scene di sesso anche, e talvolta conducono in territori imprevisti il terzetto di personaggi. Affiora in maniera esplicita la tendenza omoerotica del regista, così come il narcisimo di un cineasta che quando filma fa l’amore con le proprie immagini (e basterebbe, da questo punto di vista, la dissolvenza che sovrappone in apertura una vagina a un occhio…). Sulla scia di Swimming Pool, lo spettatore è chiamato a decifrare ciò che è reale da ciò che non lo è, ciò che è pura proiezione mentale dagli effetti del suo manifestarsi, coinvolto in un gustoso guilty pleasure, ambiguo ma poco sottile.
Ben altra ricchezza e stratificazione di significati aveva proposto l’anno scorso, in questi stessi giorni, Elle, a conclusione di un concorso decisamente superiore. A questo punto viene da domandarsi come mai sia stato lasciato fuori concorso Da una storia vera di Polanski (sceneggiato da Assayas) che domani farà definitivamente calare il sipario sulla manifestazione. Dobbiamo pensare che sia peggio di quanto abbiamo visto finora? Difficile crederci. [Alessandro Stellino]
IL CINEMA, LUCE DEL MONDO
Non un film testamento, 24 Frames di Kiarostami, ma un inizio infinito, nuovo, vertiginoso. L’immagine alle origini del cinema che sogna ancora una volta il futuro. Un futuro che si offre come un viaggio nello spettro del visibile, nello spazio del possibile di quanto è ancora possibile fare e vedere. 24 inquadrature di uguale durata per raccontare la storia del mondo. Come un sogno che diventa viaggio. Ma anche il segno, ostinato del fare, che diventa canto segreto di una passione per le cose del mondo. Si sta lì, in presenza del magistero lumieriano di Kiarostami, come se si fosse all’alba del cinema. E il maestro gioca con le sembianze della documentazione e con il piacere di un Méliès, come il futuro del vedere fosse ancora tutto da inventare. Ci si abbandona al puro piacere del guardare; una dolcissima allucinazione che si articola come il segno di una resistenza. I frame di Kiarostami si alternano come un ciclo: le stagioni e gli elementi. Gli animali e i corpi dei viventi. Il passare e il restare. Sino a giungere all’ultimo frame, in assoluto uno dei momenti più alti del cinema degli ultimi anni. Una stanza. Un computer. Sullo schermo si anima un frame dell’epoca d’oro di Hollywood. Un bacio. Un lieto fine. Il corpo addormentato davanti allo schermo non vede. Un bacio. Intorno cala il buio. E si comprende il progetto. Conservare la luce nel mondo. Il cinema, luce del mondo. Testimoniare la passione del mondo. Impossibile non commuoversi di fronte al nitore della poesia, sì: poesia, di Kiarostami. Tutta la nostra vita di spettatori sta nell’ultimo frame del suo “primo” film; quello che riapre, ancora una volta, tutte le possibilità. [Giona A. Nazzaro]