Abbiamo già avuto modo di scriverlo e ci torneremo su: il miglior cinema americano di questi anni è un cinema giovane e arrabbiato, marginale e lontano da Hollywood, che dalle nostre parti non arriva e non si vede. È il cinema di Dustin Guy Defa e Joel Potrykus, di Rick Alverson e Josephine Decker, di Drew Tobia e Alex Ross Perry. E dei fratelli Safdie, che a sorpresa si presentano in concorso a Cannes con Good Time, un adrenalinico Tutto in una notte al neon, a metà strada tra il Ferrara più pop e un Cassavetes sotto acido. Protagonista Robert Pattinson, la cui presenza deve aver convinto Fremaux a schierare il film nella competizione principale, affollata di star ma raramente così debole dal punto di vista cinematografico, tanto che le sorprese più rilevanti sono arrivate dalle sezioni collaterali. E c’è poco da storcere il naso, perché i Safdie sono riusciti a strappare all’ex vampiro di Twilight la sua miglior interpretazione, nel ruolo di uno sbandato disposto a tutto pur di portar via il fratello ritardato (Ben Safdie) da una situazione familiare di miseria e da un futuro di istituti psichiatrici. Ma la rapina con cui si procurano i soldi per la fuga finisce male ed innesca una serie di eventi e detour narrativi spiazzanti e rocamboleschi, con personaggi che finiscono loro malgrado nel vortice di una situazione senza via di uscita, dove ci si spinge avanti fino all’estremo, e l’estremo non è altro che il ritorno al punto di partenza.

Dopo il druggie drama Heaven Knows What, presentato qualche anno fa in Orizzonti a Venezia, i Safdie spiccano il balzo senza cambiare squadra, collaborando con Ronald Bronstein (altro filmmaker da includere nella lista di cui sopra), già attore per i due in Go Get Some Rosemary aka Daddy Longlegs (2009), e da allora fidato sceneggiatore. E se la prima inquadratura può far pensare che il balzo sia stato spiccato anche in termini economici, con una ripresa aerea tra i grattacieli di New York, i restanti 90 minuti sono un vibrante tour de force dove la camera a mano sta addosso ai volti nevrotici degli attori e si agita con loro negli spazi ristretti dei luoghi in cui si muovono come animali in gabbia, accompagnata dal beat basso e martellante di una musica elettronica che non smette un attimo. Il senso di claustrofobia è perenne, e assume dimensioni esistenziali in una notte di un giorno da cani che trascina ogni individuo finito sul sentiero del protagonista in un incubo caleidoscopico. Centrale, e a suo modo memorabile, la lunga sequenza dentro la casa degli orrori di un luna park, vero momento weird di un film che qualche minuto prima vede Pattinson pomiciare con una ragazzina pur di impedirle di riconoscere il suo volto da ricercato in un servizio televisivo.

A conti fatti, il film resta ancorato al genere, non ha granché da dire e non va da nessuna parte, perché da nessuna parte vanno anche i suoi protagonisti, con i due fratelli che all’alba si ritroveranno separati e nuovamente ingabbiati, e un terzo malcapitato pericolante sul cornicione di un palazzo. Ma non è un esperimento fine a se stesso: piuttosto una boccata d’aria in un concorso dove troppi autori si sono dimostrati leziosi, bolsi e schiavi della propria maniera. [Alessandro Stellino]


 12-DAYS_-Still-2_©12-jours-Palmeraie-et-désert-e1494423606364

GIUDICI DELLA FOLLIA

“Dall’uomo all’uomo vero il cammino passa per l’uomo folle” dichiarava Foucault. Da questo assunto prende il via 12 jours, nuovo film di Raymond Depardon, maestro indiscusso della fotografia e uno dei punti di riferimento nel campo del documentario. Anche se in Italia è meno conosciuto rispetto ad altri autori, nel corso della sua carriera Depardon ha esplorato soggetti e forme diverse, spaziando da poetici film in prima persona a opere d’osservazione, che fanno accostare il suo nome a quello di Frederick Wiseman. Quest’ultimo documentario appartiene proprio al secondo gruppo, portando avanti il lavoro con istituzioni a cui ne aveva già dedicati altri: in un ospedale psichiatrico era girato San Clemente, Urgences (1980, uno dei suoi primi film) mentre i tribunali sono protagonisti di Faits divers (1983), Délits flagrants (1994) e 10eme Chambre (2004, che è stato un vero successo nelle sale parigine). 12 jours mostra l’udienza giudiziaria che segue al ricovero coatto negli ospedali psichiatrici: dopo 12 giorni, i pazienti – accompagnati da un avvocato – si presentano di fronte a un giudice incaricato di decidere riguardo al prolungamento della cura o al loro rientro a casa. Lucido nel dispositivo da mettere in campo, Depardon sceglie di filmare unicamente il colloquio tra paziente e giudice, lasciandoci scoprire le loro storie individuali attraverso il linguaggio, spesso tecnico, della legge e le parole sconnesse dei pazienti. Le uniche concessioni fuori dall’anonima sala dove si svolgono i colloqui sono rappresentate da qualche composta inquadratura di esterni, in cui i pazienti trascorrono le loro ore d’aria sulle note di Alexandre Desplat.

Presentato fuori concorso, in una sezione che da tanti anni Cannes concepisce come luogo ideale per i documentari (e sullo stesso andazzo si è posta anche Venezia l’anno scorso con un Fuori Concorso DOC), 12 jours ruba la scena a quasi tutti i film passati nella competizione principale. Scegliendo rigorosamente solo dieci casi (su settantadue che ha seguito e ripreso), Depardon trova i suoi personaggi, impeccabili nel presentarsi con una violenza urticante e drammaticamente reale nelle loro ferite più profonde. C’è chi desidera soltanto vedere il padre rimuovendo il fatto di averlo ucciso, c’è chi è deciso a tentare nuovamente il suicidio ma non vuole abbandonare il suo gatto, c’è chi ambisce a ottenere la custodia della figlia anche contro ogni consiglio medico. Li accomuna una totale mancanza di consapevolezza, ma anche la verità di cui sono in cerca e che non si stancano di domandare neppure al giudice: cosa vuol dire essere malati? Perché devono perdere la loro libertà? Perché lo Stato deve imporre loro di sopravvivere?

Vorrebbero delle risposte ma le loro domande restano inevase, fuori dai propri dossier su cui è solo appuntato il rientro a casa o il nuovo ricovero. E ogni volta che questi pazzi escono di scena, sul volto dei giudici si dipinge una nuova espressione: la consapevolezza dell’inadeguatezza della legge di fronte al misterioso desiderio umano. [Daniela Persico]


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