Nel 1997, lo studioso Michel Marie chiudeva la sua celebre sistematizzazione della Nouvelle Vague, facendo notare quanto poco della spinta rivoluzionaria del cinema di quegli anni fosse rimasta nella contemporaneità. Se Godard, Truffaut, Rohmer non sono dimenticati è soltanto grazie ad alcune immagini trasformate in feticci: cartoline, poster, spillette, ricordi a buon mercato dello spirito del tempo o di una citta. L’epilogo di uno dei testi di riferimento per i corsi di cinema in Francia descrive perfettamente il motore che guida Le Redoutable di Michel Hazanavicius: se il linguaggio cui ha dato vita la Nouvelle Vague è da rimuovere, ciò che si può ampiamente sfruttare sono i volti raffinati, i colori sgargianti, l’afflato di un tempo segnato dalla nostalgia. L’ombra del suo immaginario è ancora viva.
Il film, scelto come uno dei tre titoli francesi della competizione principale, si basa sull’autobiografia di Anne Wiazemsky in cui si racconta il suo fugace matrimonio con Godard, negli anni più militanti della sua carriera, tra il 1967 e il 1970. Lei è la nipote di François Mauriac, lui è ancora per poco l’uomo più temuto del cinema francese. Nelle strade irrompe la rivoluzione e mentre Anne coltiva il sogno di diventare attrice, Jean-Luc metterà alla berlina ogni propria convinzione alla ricerca di un altro modo di fare cinema. Il 1968 è l’anno decisivo nella biografia di Godard, segnando solo la prima svolta di una carriera che non smetterà più di sorprendere. Forse per questo ci si aspettava qualcosa di diverso, nonostante le premesse: d’altra parte cosa c’è di peggio di Hazanavicius, regista di sistema e di maniera, per ritrarre un perenne sperimentatore come Godard?
Proprio questo presupposto deve far riflettere: mentre sullo schermo si dispiega la farsa di un anno fondamentale della storia del Novecento, in cui Godard diventa l’emblema dell’inettitudine intellettuale (con una gag che prende spunto da un episodio vero: la ripetuta rottura dei suoi occhiali durante le manifestazioni), le risate collettive in sala indicano ormai un totale scollamento con l’eredità di pensiero della Nouvelle Vague. Siamo di fronte a un cinema che ha totalmente abdicato al proprio ruolo di centralità nella sfera culturale: è un puro divertissement, dove al posto delle modalità del cinema muto (The Artist) a essere malamente riprodotti sono qui gli stilemi dell’opera di Godard, dai composti quadri in bianco e nero di Una donna sposata fino ai colori sgargianti di Il bandito alle ore 11. Ma Hazanavicius non è Gus Van Sant: per lui l’operazione mimetica non si consuma fino in fondo, quello che conta è il “sapore” della scena piuttosto che il dettaglio dell’inquadratura, cosa particolarmente evidente quando ricalca (senza riuscirci) i primi piani de La cinese, in cui Anne è sempre fuori asse.
Se l’interpretazione di Louis Garrell raggiunge l’effetto desiderato con impeccabile bravura e ironia, non possiamo che stare dalla parte del vero “Redoutable”, quello che non ha mai smesso di domandarsi quale sia il compito del regista. Perché non porsi questa domanda significa arrendersi a un mercato che stringe le fila degli autori e, appena può, li manipola. [Daniela Persico]
L’IRRAZIONALITÀ DELLA FEDE, L’ESSENZA DEL CINEMA
C’era d’aspettarselo che prima o poi Bruno Dumont avrebbe deciso di affrontare una delle figure archetipiche della storia francese. Del resto, Giovanna d’Arco è da sempre stata oggetto di indagine per i grandi cineasti, quasi come se le sue visioni e la sua “croyance” la rendessero oggetto di una sfida, visceralmente connessa all’essenza del cinema. Bresson la coglie nel momento di solitudine esistenziale durante il processo, Rivette come pulzella guerrigliera, Dumont – autore che più di tutti si è avvicinato all’irrazionalità della fede e al mistero della natura – sceglie di raccontarla bambina, nel tempo in cui cresce la sua credenza e si radicalizza la sua convinzione.
Jeanette – L’enfance de Jeanne d’Arc, presentato alla Quinzaine des Realisateurs, è destinato a diventare il film più amato dai cinefili del festival, un’opera che per tanti motivi segna un possibile punto di svolta nella filmografia del regista. L’ironia, che ha fatto ingresso con P’tit Quinquin, incontra qui l’essenzialità di opere come Hadewijch, bilanciando in maniera inedita il tono ludico con virate di intensità mistica. Jeanette ha otto anni e la sua ricerca di Dio si trasforma in un ballo senza sosta in una landa desolata tra il fiume e un pascolo, nei paesaggi scolpiti dal vento della costa d’Opale. La sua voce angelica è sorretta da virate di musica metal, che indicano il movimento chiave della sua danza: la testa buttata avanti e indietro, a scuotere i lunghi capelli. Gli incontri sono sporadici: una madre superiora, un’amica, due bambini poveri, la visione di San Michele che le indicherà il suo destino. Poi, in un secondo tempo, la si ritrova quattordicenne in procinto di elaborare un piano che le permetterà di arrivare a Orleans, grazie all’aiuto di uno zio.
Impostato per quadri, come il duetto di rappresentazioni sacre scritte da Charles Peguy a cui si ispira, il film si presenta come una recita scolastica, che rifiuta il realismo per abbracciare la completa astrazione, come solo Rohmer ha osato fare con il suo Perceval le Gallois. Tutti gli interpreti sono giovanissimi, i costumi ridotti a sacchi di liuta colorati, la scenografia pressoché inesistente: eppure il mondo di Jeanette è puro desiderio, quello di una piccola idealista che crede in un ordine più grande. Dall’alto qualcuno la osserva, creando una vertigine, unico controcampo di una fede che è tutta terrena, e spesso ha come sola risposta il belato di una pecora. Se i balletti vivono della coreografia originale e potente di Philippe Decouflé, la forza del film risiede nello sguardo obliquo di Dumont, che sembra osservare Jeanette dai margini. La sua fede non gli appartiene, ma il suo desiderio per una giustizia terrena che passi anche attraverso il conflitto e la guerra riguarda in maniera immediata il nostro presente. Un film su cui ritornare perché, a oggi, in questo festival nessuna visione è stata altrettanto folgorante. [Daniela Persico]
DEL VUOTO MONUMENTALE
Nel 2015 Claude Lanzmann torna in Corea del Nord, dopo esserci stato già nel 1958 e nel 2004. Là il tempo, come è noto, si è fermato agli anni Cinquanta. E a Pyongyang il cineasta, come ammette lui stesso attraverso la sua voce over, incontra un luogo che è contemporaneamente vuoto e monumentale.
Far coincidere il vuoto e il monumentale era il fulcro del proposito estetico di Shoah, ma ciò che cercava nel suo opus magnum, Lanzmann lo trova a Pyongyang, autentico monumento a cielo aperto della Guerra Fredda, che come tutti i monumenti – e, in fondo, tutte le opere d’arte (dixit Bazin, qui abbastanza esplicitamente evocato) – è lì per arrestare il tempo, e celebrare la vittoria sul suo corso mortifero e inesorabile. Era così per le mummie egiziane, è cosi per le statue giganti di Kim padre e Kim figlio, conquistatori, secondo il popolo nordcoreano, dell’immortalità. Poiché la Shoah ha gettato le basi per la successiva guerra fredda, a quel film non può che logicamente seguirne un altro con al centro un’analoga testimonianza sulla guerra fredda. E il testimone della guerra fredda, al pari di quel museo a cielo aperto che è Pyongyang, qui altri non è che Lanzmann stesso, che balza davanti all’obbiettivo e, proprio come i sopravvissuti di Shoah (è lui stesso a tracciare esplicitamente il parallelismo), lascia srotolare la sua memoria.
In Napalm, ciò che ne esce non è inedito: si tratta di un lungo, incredibile aneddoto su un’infermiera nordcoreana con la quale intreccia una grottesca e pericolosa tresca in occasione della sua visita del ’58, già comparsa sul suo Le lièvre de Patagonie. E forse, sorprendentemente, l’autenticità del ricordo qui è meno importante del fatto che potrebbe benissimo trattarsi di un’impeccabile storia di spionaggio – una di quelle storie che hanno testimoniato della guerra fredda anche più di quanto possa farlo la verità storica stessa (che qui, in ogni caso, non viene minimamente violata). Ma se l’aneddoto è già nel suo libro, perché ripeterlo davanti all’obbiettivo? Semplice: un conto è la scrittura, un altro è l’imbalsamazione. Nei musei, generalmente, troviamo la seconda, più che la prima. [Marco Grosoli]
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