Ci voleva l’esordio di Jordan Peele perché la Blumhouse Productions realizzasse il suo film più politico. Get Out è anche una delle sue migliori produzioni sul piano strettamente cinematografico, ma non c’è dubbio che questo thriller/horror a basso budget – 4.5 milioni di dollari, in linea con la media dello studio – affondi le radici in un dibattito quanto mai attuale nell’America contemporanea, dove la sintesi tra capitalismo, democrazia e multiculturalismo non ha mai trovato il giusto equilibrio fra le parti. Così, mentre American Gods ci regala uno spietato monologo sulla condizione dei “neri” negli Stati Uniti e Luke Cage omaggia Trayvon Martyin con l’abbigliamento iconico dell’eroe, l’importanza di questo conflitto e delle sue implicazioni storico-sociali si ripercuote anche nei film o nelle serie tv di genere, segno che l’esigenza di riflessione è davvero capillare. D’altra parte, i generi hanno il pregio di mettere in luce la questione razziale attraverso il parossismo della metafora, che traccia i contorni del problema e lo rende universale: proprio ciò che Jordan Peele, noto attore e sceneggiatore del duo Kay & Peel, riesce a fare con Get Out.
La disavventura di Chris Washington – il talentuoso fotografo newyorkese interpretato da Daniel Kaluuya – emana quel senso di perenne minaccia con cui gli afroamericani hanno ormai imparato a convivere, e non c’è da stupirsi che Chris affronti la visita dai genitori della sua ragazza con un misto di diffidenza e paranoia: lei, Rose Armitage, è infatti bianca, benestante e liberal, sempre pronta a difendere il suo uomo dai soprusi del potere, compreso l’atteggiamento discriminatorio di un poliziotto. E bianche, benestanti e liberal sono proprio quelle persone che «avrebbero votato Obama per la terza volta, se avessero potuto», come dice Rose per rassicurare Chris davanti alla prospettiva di un fine settimana tra ricchi WASP, con servitù esclusivamente “nera”. Il suddetto clima di minaccia è costante, e l’isolamento del protagonista coagula in sé l’alienazione di un intero popolo, come se Peele volesse dirci che questa, per gli afroamericani, è semplicemente la norma: solo un giorno come un altro nella “terra delle opportunità”. La grottesca mimica facciale della servitù alimenta un senso d’inquietudine che si riverbera sia nei tagli delle inquadrature (soprattutto quando si affidano ai primi piani per deformare il volto di Georgina, la governante) sia nei raffinati movimenti di macchina, dove Peele costruisce la tensione sull’attesa senza eccedere in jump scare, che spesso banalizzano i film targati Blumhouse.
Accade allora che l’accondiscendenza tipicamente liberal degli Armitage – dalla quale noi spettatori bianchi c’illudiamo di essere immuni – si riveli più minacciosa di qualunque razzismo esplicito, e Chris precipita in un incubo fantascientifico diviso tra la Society di Yuzna e le Stepford Wives di Ira Levin: lo sfruttamento della maggioranza dominante sulla minoranza oppressa è conseguenza inevitabile di un Sogno Americano mai pienamente realizzato, perché mai realmente democratico. Di fatto, Jordan Peele denuda l’invidia che si cela dietro al paternalismo bianco, destinata a tradursi in una bramosia violenta e cannibalizzante. Questa frustrazione è dettata soprattutto dall’inferiorità fisico-atletica (il nonno di Rose fu sconfitto da Jesse Owens nelle qualifiche per le Olimpiadi del ‘36), e non mostra alcun interesse per il retaggio culturale afroamericano: non a caso, Chris intuisce che qualcosa non quadra proprio quando si rivolge a Georgina nel cosiddetto Standard Black English, e lei – che si esprime solo nel rigidissimo Standard Written English degli americani WASP – non è in grado di comprendere lo slang. Il processo di addomesticamento e manipolazione non può prescindere dal linguaggio, le cui peculiarità etniche vengono sradicate per uniformarle a quel “dialetto dell’istruzione, dell’intelligenza, del potere e del prestigio” di cui parlava David Foster Wallace in Autorità e uso della lingua, quando sottolineava l’impossibilità di utilizzare idiomi alternativi per comunicare a livello istituzionale. Se si estirpa il linguaggio, si recide anche l’identità culturale.
Partendo da un contesto ambientale che rievoca i tópoi del periodo schiavista (la grande magione, la servitù e persino il cotone, quest’ultimo al centro di una scena chiave), Jordan Peele costruisce una brillante allegoria della discriminazione moderna, più subdola e sottile rispetto al passato: la maggioranza privilegiata bianca, infatti, deve ormai riconoscere le aspirazioni sociali degli afroamericani perché necessita della loro forza lavoro (il cheap labour di cui parla James Baldwin in I Am Not Your Negro), ma non può includerli apertamente nel discorso economico-democratico, o rischierebbe di perderne il controllo. Da qui derivano il buonismo e il paternalismo dei liberal, i quali però finiscono per provocare più danni che benefici alla condizione delle minoranze. L’intelligenza di Peele sta nell’imbastire questo discorso all’interno dei codici dell’horror, giocando sul ribaltamento dell’home invasion in modo non dissimile da Karyn Kusama in The Invitation, ma sfruttando le meccaniche del genere più come mezzo che come fine della narrazione. Lo scopo è rintracciabile nello straniamento degli spettatori bianchi, abituati a identificarsi con l’eroe di turno ma qui costretti a specchiarsi nella forma mentis degli Armitage, gli antagonisti: Peele non offre nessuna scappatoia, se non quella dell’autocoscienza e del ripensamento dei valori. L’unico possibile lieto fine appartiene a Chris, paladino di un’etnia che può contare unicamente sulle proprie forze per trovare una via di fuga.