Secondo la celebre ipotesi di Sapir-Whorf, nota anche come “ipotesi della relatività linguistica”, lo sviluppo cognitivo di ogni essere umano è influenzato dalla sua lingua: ciò significa che la nostra visione del mondo e il nostro modo di pensare – se vogliamo dar credito all’interpretazione più radicale di questa teoria – è determinato dal nostro modo di esprimerci, dalla lingua che parliamo quotidianamente. Sembra difficile credere a una lettura così estrema, ma la fantascienza è un genere che ama esplorare i confini più remoti di qualunque ipotesi, poiché laggiù trova i riflessi più vividi della nostra esistenza interiore o della nostra vita sociale, valorizzandone i conflitti in forma metaforica. Arrival, in tal senso, forza i limiti di un discorso che non merita di restare circoscritto all’esperienza umana, perché la speculazione fantascientifica gli permette di spingersi laddove nessun linguista avrebbe mai osato addentrarsi.
L’assunto di base è molto semplice: una civiltà aliena giunge sulla Terra a bordo di enormi astronavi simili a monoliti, e il governo americano – in collaborazione con gli altri paesi – cerca un modo per decifrare le intenzioni dei visitatori. Qui entra in gioco Louise (Amy Adams), linguista di fama mondiale che ha il compito di imparare il linguaggio degli eptapodi (così chiamati per le otto zampe), e in particolare il loro metodo di scrittura: un complesso sistema semasiografico caratterizzato da simboli circolari del tutto indipendenti dalla lingua parlata. L’impegno di Louise si alterna ai ricordi della figlioletta scomparsa, lampi mnemonici che le balenano in testa mentre cerca di comprendere “l’altro da sé”.
È indubbio che il dialogo di sguardi tra la protagonista e gli alieni, schermati dalla parete trasparente su cui tracciano i loro ideogrammi, sintetizzi l’idea secondo cui il confronto con l’ignoto corrisponda a un’opportunità di emancipazione globale; non solo del singolo individuo, ma dell’interna specie umana. Enemy ci aveva già introdotto al versante metafisico di Denis Villeneuve, eppure qui il regista canadese allarga lo sguardo su un panorama molto più vasto, dove intimismo e universalità si compenetrano a vicenda, e la fantascienza ritrova un’anima più matura rispetto alle consuetudini di Hollywood (che, nel prediligere l’azione e gli spettacoli pirotecnici, tende a infantilizzare il pubblico). Quella di Arrival è una sci-fi messianica e progressista che si avvicina alle utopie di Contact e Incontri ravvicinati del terzo tipo, nonostante Villeneuve adotti un approccio rigoroso e contemplativo che ricorda invece le geometrie monumentali del suo “nume”, Stanley Kubrick, omaggiato in molteplici inquadrature. La tensione è radicata nelle attese, nel graduale avvicinamento a una verità che si credeva impossibile, e che infine si mostra in tutta la sua “estraneità”: comunicare con i visitatori spaziali non è come interpretare la lingua di una popolazione terrestre, poiché non esiste un terreno condiviso su cui incontrarsi, né una simile comprensione del mondo generata dal fatto di essere entrambi umani.
Il colpo di scena che imprime una svolta al copione di Eric Heisserer (basato sul racconto Story of Your Life di Ted Chiang) ribalta la nostra percezione della realtà e agisce sulla struttura stessa del film: passato e futuro si scambiano di posto, e i flashback sono invero dei flashforward. Il punto è che, nei sopracitati esempi di fantascienza progressista, gli alieni entravano in contatto con noi per regalarci qualche tecnologia favolistica o per accoglierci nella comunità interstellare, mentre in questo caso ci offrono il potere sconfinato di un nuovo linguaggio. Il dono dei misteriosi ospiti è proprio la loro forma di scrittura, dove la circolarità degli ideogrammi impone di conoscere già la fine di una frase nel momento stesso in cui si inizia a scriverla. Per esteso – e qui emerge l’interpretazione fantasiosa dell’ipotesi di Sapir-Whorf – tale sistema linguistico influenza così fortemente la nostra cognizione della realtà da aprirci un nuovo ventaglio di prospettive, uno sguardo completamente nuovo sull’universo. Se i Tralfamadoriani di Mattatoio n° 5 percepivano il tempo come una serie di eventi contemporanei, dunque osservabili tutti nello stesso istante come se fossero posti sulla linea dell’orizzonte, gli eptapodi di Arrival ci illustrano una concezione molto simile, ma figlia di una visione circolare: il tempo si piega su se stesso come un serpente che morde la propria coda, quindi passato e futuro non sono più distinguibili, e all’inizio di qualunque azione possiamo già conoscerne la fine. È lo stesso concetto insito nella scrittura aliena, ma ampliato alla comprensione del mondo e della Storia, poiché Louise – imparando il linguaggio degli extraterrestri – comincia a “vedere” il futuro.
L’obiezione che si potrebbe muovere è abbastanza ovvia: anche noi umani viviamo una netta separazione tra la lingua parlata (più ondivaga e imprecisa) e quella scritta (più rigida e strutturata), dunque conosciamo a nostra volta la fine di una frase nel momento stesso in cui iniziamo a scriverla, o almeno siamo grossolanamente consapevoli del senso che avrà; insomma, sappiamo già “dove andremo a parare”, al contrario di quanto accade nel linguaggio verbale. Forse la logica di Arrival scricchiola un po’, come si evince da un paio di snodi narrativi nell’epilogo del film, ma la sua bellezza e la sua profondità semantica richiedono di sospendere l’incredulità, persino di fronte a certe semplificazioni del racconto: percorrendo il sentiero immaginifico tracciato da Villeneuve, si giunge a una dolente presa di coscienza dei propri limiti, ma anche a una meravigliosa celebrazione delle potenzialità umane, rese ancor più limpide dall’incontro col “diverso”. Nella sovrapposizione di piani temporali, Arrival ci parla del presente con un’intensità che è pari soltanto al suo slancio verso il futuro, dove comunicazione e condivisione sono le uniche possibilità di salvezza.