Les Mistons era buono, I quattrocento colpi è migliore. Da un film all’altro, il nostro amico François fa il salto decisivo, il grande balzo della maturità. Come si vede, non perde tempo.
Con I quattrocento colpi, entriamo nella nostra infanzia come una casa abbandonata dopo la guerra. La nostra infanzia, anche se si tratta principalmente di quella di François Truffaut: le conseguenze di una bugia sciocca, il fallimento della fuga, l’umiliazione, la scoperta dell’ingiustizia, no, non esiste infanzia “incontaminata”. Parlando di se stesso sembra parlare anche di noi: è il segno della verità, e la ricompensa del classicismo autentico, che sa limitarsi al proprio oggetto, pur vedendolo all’improvviso allargarsi e coprire tutto lo spettro delle possibilità.
L’autobiografia non è, per motivi che si possono facilmente indovinare, un genere affrontato molto spesso dal cinema; ma non è questo che deve stupirci, bensì la serenità, il ritegno, la costanza di voce con i quali viene evocato un passato così parallelo al proprio. Il François Truffaut che incontrai, insieme a Jean-Luc Godard, sul finire del ’49, al Parnasse, da Froeschel[1], al Minotaure, aveva già oltrepassato l’apprendistato dei quattrocento colpi; vi assicuro che parlavamo di più di cinema, dei film americani, di Bogart che davano al “Moulin de la Chanson”, che di noi stessi, se non per allusioni. Ci bastava. Oppure accadeva che, all’improvviso, una fotografia lo rivelasse tre anni prima, al tiro a segno, abbagliato, pallido, un Hossein[2] in formato ridotto, con accanto, appoggiato alla sua spalla, raggiante, Robert Lachenay; oppure nelle tre file rituali di una classe scolastica fossilizzata.
Questa fusione di qualcosa di vago e d’improvvisamente illuminato, tutto ciò finisce per somigliare a ricordi veri, a una memoria vera. Ora, ne sono quasi sicuro: sullo schermo ho riconosciuto tutto, ho ritrovato tutto. La madeleine di Proust non gli restituiva altro che la sua infanzia; ma di una buccia di banana, trasformata in fondo al piatto in stella marina, François Truffaut fa molto di più; e in un colpo solo ogni tempo è ritrovato, il mio, il tuo, il vostro, un tempo unico nella luce che non trovo aggettivi per qualificare, la luce inqualificabile dell’infanzia.
A guardarlo bene, questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico. Non c’è nulla che denoti una qualche forma di esibizione. Anche Prigione [Ingmar Bergman, 1949] è bello ma di un’altra bellezza: bello come Bombard che tiene la sua Paillard all’estremità del braccio per filmare in mezzo all’Atlantico il proprio volto gonfio e invaso dalla barba[3]. La forza di François Truffaut è di non parlare mai direttamente di se stesso ma di usare un altro ragazzino, che gli somiglia forse come un fratello, ma come un fratello oggettivo, ed è a questo sottomettersi ricostruendo umilmente, a partire da un’esperienza personale, una realtà parimenti oggettiva, che poi filma con il più assoluto rispetto. Un metodo simile nel cinema porta un nome molto bello (e se lo stesso François Truffaut non vuole riconoscerlo, pazienza): si chiama Flaherty. E la prova del nove della verità del metodo, e della verità tout court di questo film, è la scena straordinaria della psicologa – impossibile da realizzare, sia detto tra parentesi, con gli antiquati metodi di ripresa che vorrebbero a tutti i costi obbligarci a mantenere – nella quale l’improvvisazione più totale coincide con la ricostruzione più rigorosa, in cui la confessione verifica l’invenzione. Dialogo e “mise en scène”, al termine di una sorta di percorso ascetico, sboccano alla fine sulla verità della diretta; con essa, il cinema reinventa la televisione, e questa, a propria volta, lo consacra come cinema; non c’è più spazio ormai che per le tre splendide inquadrature finali, inquadrature della durata pura, della perfetta liberazione.
Tutto il film ascende verso questo istante, e si libera a poco a poco del tempo per raggiungere la durata: il senso della lunghezza e della brevità, di cui François Truffaut si preoccupa tanto, sembra, in fin dei conti, non avere per lui molto significato; o forse, al contrario, era necessario che inizialmente ci fosse questa ossessione della lunghezza, del tempo morto, questa abbondanza di tagli, di contrasti, di rotture, affinché si potesse farla finita con il vecchio tempo dei cronometri e ritrovare il tempo autentico, quello della giubilazione mozartiana (che Bresson ha cercato troppo per poterlo raggiungere). Ecco infatti un film come ce ne sono pochi, benché molti ci provino più o meno abilmente, e fin troppo abilmente, con un punto di partenza e uno d’arrivo, e, tra i due, tutta una distanza percorsa, vasta quanto quella che separa l’Irène Girard al ricevimento serale dalla Ingrid Bergman alla finestra della cella di Europa 51; un punto di partenza che afferra il tempo già in cammino, anch’esso costruito e calcolato, ma già segretamente lacerato nel suo funzionamento e nella sua stessa impazienza; un punto d’arrivo che non è la conclusione più o meno arbitraria di un intreccio più o meno ben fatto, ma un momento di stasi in cui si può riprendere fiato, il proprio respiro umano, prima di rituffarsi nel tempo del reale, il cui senso è stato riconquistato.
Ora basta con questo tono; mi pento di aver parlato in maniera così solenne di un film tanto privo di retorica; perché I quattrocento colpi è anche il trionfo della semplicità.
Non della povertà, o della mancanza d’invenzione, anzi; ma chi si pone immediatamente al centro del cerchio, non ha alcun bisogno di cercarne disperatamente la quadratura. La cosa più preziosa, nel cinema, e la più fragile, è anche quella che, ogni giorno di più, scompare sotto il regno degli abili: una certa purezza dello sguardo, una certa innocenza della macchina da presa, che qui sono proprio come se non fossero mai state perdute. Forse basta credere che le cose sono quello che sono per vederle semplicemente esistere tali e quali anche sullo schermo e questa fiducia si è forse perduta altrove? Attraverso un occhio e un pensiero che si aprono sul centro delle cose, ecco qual è lo stato di grazia del cineasta: stare prima di tutto all’interno del cinema, signore del cuore di un regno le cui frontiere potranno un giorno estendersi all’infinito: e questo si chiama Renoir.
Si potrebbe ancora insistere sulla straordinaria tenerezza con la quale François Truffaut parla della crudeltà, una tenerezza che non può essere paragonata ad altro che alla straordinaria dolcezza con la quale Franju parla della follia[4]; in entrambi i casi, una forza quasi insostenibile nasce dall’uso continuo della litote, dal rifiuto dell’eloquenza, della violenza, della spiegazione, conferisce ad ogni immagine un battito, un fremito interno, che ci raggiungono all’improvviso in brevi fulgori lucenti come una lama. Si potrebbe parlare, e a ragion veduta, di Vigo o di Rossellini, o, più giustamente ancora, di Les Mistons o di Une Visite[5]. Tutti questi riferimenti, in definitiva, non vogliono dire un granché, e bisogna affrettarsi a farli finché si è ancora in tempo. Volevo dire soltanto, nel modo più semplice possibile, che ora fra noi non abbiamo più un debuttante dotato e promettente, bensì un vero cineasta francese, che sta alla pari dei più grandi, e che si chiama François Truffaut.
Du côte de chez Antoine, in Cahiers du Cinéma, n.95, maggio 1959; comparso in Roberto Turigliatto (a cura di), Nouvelle Vague, Festival Internazionale Cinema Giovani 1985.
[1] Frédéric Froeschel, all’epoca co-gestore (insieme ad Eric Rohmer) del Ciné-Club Quartier Latin [NdT].
[2] Probabile allusione a Robert Hossein, attore francese dell’epoca [NdT].
[3] Riferimento a Naufrage volontaire, film del 1953 realizzato utilizzando il materiale filmato da Alain Bombard durante la sua traversata dell’Atlantico a bordo di un canotto [NdT].
[4] In La fossa dei disperati (1959) [NdT].
[5] Cortometraggi entrambi firmati da François Truffaut.