Un uomo anziano attraversa l’inquadratura proiettando la sua ombra su una parete a cui è appeso un dipinto che lo ritrae. Ai lati dell’inquadratura, una cornice di legno rivela che l’immagine proviene dal riflesso di uno specchio e l’uomo, che quindi è allo stesso tempo davanti e dietro la macchina da presa, commenta sorpreso: “Ah! C’est moi!?”, come se per la prima volta scoprisse la propria immagine specchiata senza riuscire del tutto a riconoscerla. In questa brevissima sequenza di Mix-Up ou Méli-Mélo (1986), apparentemente secondaria rispetto alla storia che il film racconta, Françoise Romand, cineasta nativa di La Ciotat e attiva a Parigi, sintetizza molto della sua ricerca sui rapporti tra costruzione del soggetto e costruzione dell’immagine. Teoricamente, il momento in cui il bambino si guarda nello specchio e dà segno di riconoscere la propria immagine avviene tra i sei e i diciotto mesi ma mettendo in scena una tardiva e straniata fase dello specchio, la regista racconta tutta la vertigine del soggetto che si cerca nelle ombre e nei riflessi che il suo corpo proietta su pareti, schermi, vetri, obiettivi e scopre lo scarto inestinguibile tra il sé e il suo doppio. Con stupore e autoironia, il cinema di Françoise Romand abita precisamente questo spazio di tensione tra soggetto, corpo e immagine; un’immagine che è sempre il risultato di un rapporto tra due materialità più o meno costruite (il corpo e l’immagine) mediato da un gioco di sguardi che si rimpallano all’infinito: lo sguardo del soggetto e lo sguardo sul soggetto.
Folgorante esordio, Mix-Up ou Méli-Mélo racconta, anticipando i tempi rispetto a film come La vita è un lungo fiume tranquillo (1988) o Il figlio dell’altra (2012), la storia di uno scambio di bebè avvenuto nel novembre del 1936 in una maternità di Nottingham quando Margaret Wheeler e Blanche Rylatt diedero alla luce due bambine, Peggy e Valery, che solo ventun anni dopo si ricongiungeranno con i rispettivi genitori biologici. Nel frattempo, ossessionata sin dal primo momento da atroci sospetti (“la bambina che l’infermiera mi aveva consegnato dava evidenti segni di prematurità mentre io avevo portato a termine la mia gravidanza nei tempi previsti”), Margaret fa in modo da diventare amica di Blanche e del marito. Romand ricostruisce la storia del rapporto tra i Wheeler e i Rylatt a cinquant’anni di distanza dallo scambio attraverso le loro stesse testimonianze ma passando il racconto attraverso il filtro di una messa in scena altamente stilizzata che lavora visivamente sul concetto di due, simbolo di ogni comunione e separazione conflittuale. Come ne Lo zoo di Venere (1985) di Peter Greenaway, Romand adotta il principio organizzativo della simmetria sia sul piano concettuale sia sul piano formale. La storia è raccontata alternando la parola dei Wheeler e la parola dei Rylatt e ruota attorno a dicotomie di termini complementari, inversi o reciproci come dentro/fuori, piccolo/grande, ricchi/poveri, maschile/femminile, Gran Bretagna/Francia, natura/cultura che l’autrice traduce visivamente in giochi di specularità (madre-figlia/figlia-madre), immagini di bilance, binari, griglie e scacchiere, in geometrie compositive stabili ed equilibri fisici dove a ogni peso corrisponde un contrappeso.
Come la maggior parte della produzione filmica di Romand, Mix-Up ou Méli-Mélo si colloca nel territorio di quella che potremmo chiamare “finzione documentaria”. I protagonisti di una storia realmente accaduta non si limitano a raccontare la propria vita ma la rimettono in scena come attori sotto la direzione di una regista-coreografa secondo la quale non esiste una realtà oggettiva ma esistono solo esperienze soggettive e prospettive altrettanto soggettive da cui raccontarle. Come ha scritto Jonathan Rosembaum, secondo cui Mix-Up ou Méli-Mélo è in assoluto uno dei migliori film degli anni ’80: “questo capolavoro rappresenta una vera sfida nel modo in cui rende l’arte e la vita indissociabili l’una dall’altra: Romand vi fonde scelte artistiche e tensioni etiche invitandoci a seguirne l’esempio. La rivalità implicita tra le due madri, la loro cultura e la rispettiva visione del mondo traspaiono ovunque. Ma parte del genio della cineasta sta nel riuscire a includere l’intera famiglia nel serio gioco di ruolo che è la produzione di questo film, gioco a cui anche lo spettatore è invitato a partecipare. Ciò trasforma l’arte in un’avventura imprevedibile e pericolosa ma anche in un processo di guarigione insolito per le persone filmate e per gli spettatori” (da Sight and Sound, ottobre 2010, p.13). Infatti, Mix-Up ou Méli-Mélo racconta la famiglia anche attraverso la relazione di complicità che la regista stabilisce con essa, come poi avverrà in tutti i film successivi, da Appelez-moi Madame (1987) al più recente Baiser d’encre (2014) passando attraverso il mediometraggio per la tv Les miettes du purgatoire (1992).
Romand dissemina i suoi documentari di tracce di sé, di momenti di interlocuzione con il soggetto filmato, di proprie brevi apparizioni, di commenti fuori campo. La sua presenza esplicita il rapporto con il processo di fabbricazione del cinema e sgombra il campo da ogni illusione di trasparenza del dispositivo documentario. Come una Zazie, l’autrice semina scompiglio tra le categorie prendendosi gioco delle frontiere tra documentario e finzione, sperimentando forme di messa in scena che interrogano i limiti tra verità e verosimiglianza.
L’attraversamento delle frontiere tra generi cinematografici e tra generi sociali (maschile/femminile) è il fulcro di Appelez-moi Madame (1987) che racconta la figura di Ovida Delect, al secolo Jean-Pierre Voidies, partigiano comunista, deportato e torturato dalla Gestapo, sopravvissuto alla guerra e divenuto donna all’età di 55 anni con il sostegno della moglie Huguette, già madre di suo figlio. Il film alterna scene di vita quotidiana (Ovida che vota, la famiglia in salotto, la spesa al mercato), interviste autobiografiche e rappresentazioni fantasmatiche in cui sentiamo la voce di Ovida declamare le sue poesie o descrivere il modo in cui le piacerebbe essere ritratta sullo schermo in abito da sposa mentre corre sulla spiaggia. Romand filma poi effettivamente questa scena aprendo il suo cinema documentario al contributo artistico dei personaggi filmati e alla possibilità di realizzarne i sogni proprio attraverso la contaminazione tra reale e immaginario.
Il lavoro di Romand sul rapporto tra cinema e identità prosegue con alcuni lavori realizzati per la televisione: Passé Composé (1994) su una donna affetta da amnesia che cerca di ricostruire il proprio passato e Vice vertu et vice versa (1996) su due vicine di casa insoddisfatte che, approfittando della loro somiglianza fisica, decidono di scambiarsi le vite. Con Ciné-Romand (2008), invece, sorta di mise en abîme dei suoi film precedenti in cui gli spettatori – per lo più amici, vicini e parenti – diventano anche attori, la videocamera inizia a intraprendere un cammino autobiografico.
È però con Thème Je (2011), rovesciamento di “je t’aime”, che la regista punta la videocamera su se stessa. Proiettato in Italia al Festival “Cinema e donne” di Firenze nel 2012, il film è un’auto-inchiesta in cui il confine tra pubblico e privato, tra dicibile e indicibile è oggetto di continui scivolamenti. Cogliendo l’occasione di un cambiamento esistenziale (il trasferimento per un anno a Harvard per insegnare e la vendita dell’appartamento) Romand elabora un video-diario rivolto a un “altro” che talvolta è lo spettatore, talvolta un amante appena lasciato, talvolta lei stessa. Senza pudori e con l’ironia di un’artista in cui la dimensione politica delle cose che racconta è sempre presente senza essere mai sbandierata, la camera-specchio di Romand documenta la famiglia e l’intimità tra personale e collettivo, tra vita e cinema, tra storia e Storia: dai parenti materni vittime del genocidio armeno al nonno primo sindaco comunista de La Ciotat, fino al trisavolo protagonista de L’arroseur arrosé dei fratelli Lumière che Romand rimette in atto in una sequenza porno-pastiche da far invidia a Gaspard Noé. Davanti all’obiettivo Romand racconta e mostra di tutto: dal rapporto tra desiderio erotico e forme di dominazione agli interrogativi estetici ed economici che accompagnano la produzione di un film.
La polifonia, anche linguistica, del racconto è resa sul piano visivo da un collage di immagini sovrapposte o giustapposte con lo split screen, come si trattasse di un album fotografico animato, di sequenze di altri film, conversazioni su Skype. Romand sceglie di tematizzare la porosità tra il dentro e il fuori della messa in scena tramite un linguaggio riflessivo fatto di commenti fuori campo, di sequenze in cui la stessa regista si filma mentre posiziona la macchina da presa, di incidenti di ripresa non censurati. Attraverso la videocamera (The Camera I è il titolo inglese del film che gioca sull’omofonia tra il pronome I, io, e il sostantivo eye, occhio) la regista scopre se stessa e si serve di ciò che vede sullo schermetto di ripresa per rendere la sua immagine più somigliante all’ideale che ha di sé. Infatti, allo sgomento con cui si accorge del fascio di rughe che le circondano gli occhi, reagisce con un piccolo intervento di chirurgia estetica su cui, a cose fatte, chiosa colpevolmente e maliziosamente : “ho ceduto al ricatto dello sguardo maschile”.
Sorta di Alice oltre lo specchio, il marchio di fabbrica del cinema di Romand è l’atto dell’attraversamento che la porta a esplorare realtà che sovvertono le norme, realtà invertite, come nel caso Gais Gay Games (2011), oggetto filmico colorato e irridente di 30 minuti ambientato nell’agosto 2010 durante un’edizione delle Olimpiadi Gay tenutesi a Colonia. Il film documenta la freschezza liberatoria di un rovesciamento carnevalesco che quella stessa città sembra aver totalmente dimenticato con l’ondata di violenza del Capodanno 2016.
L’ultima opera di Romand è Baiser d’encre (2014), che segue le peregrinazioni della coppia di artisti di strada Ella et Pitr, autori di enormi dipinti su poster murali sparsi per tutta la Francia e non solo. Il film intervalla le sequenze in cui la regista (che cura anche la fotografia e il montaggio) mostra – videocamera digitale alla mano – la vita e il lavoro del duo, con una serie di tableaux vivants inscenati sul palco di un teatro dove si prepara uno spettacolo con attori che incarnano i personaggi dei dipinti di Ella et Pitr. Si ritrovano qui alcuni elementi ricorrenti del cinema di Romand: la fusione tra arte e vita, l’importanza del contributo dei personaggi all’immaginario del film (tanto più che Baiser d’encre ritrae degli artisti) e il costruirsi tra i due protagonisti e la cineasta di una relazione d’amicizia comprendente anche i figli dei primi (che diventano due nel corso delle riprese) e il compagno della seconda, il compositore Jean-Jacques Birgé, autore della colonna sonora. Il film è uscito quest’anno in DVD (versione francese con sottotitoli in inglese e spagnolo) per le edizioni della casa di produzione Alibi creata dalla stessa Françoise Romand per sostenere i suoi progetti, ormai da tempo totalmente indipendenti e autoprodotti: http://www.romand.org/.